di Giuseppe Balistreri
In un articolo precedente ho sostenuto che con il governo Monti si è consumata la fine della II Repubblica. Con II Repubblica intendo quella fase di transizione apertasi negli anni tra il ’92 ed il ’94, a cui è mancato un vero e proprio passaggio ad un nuovo ordine di cose. Il fallimento della II Repubblica si è evidenziato proprio e soprattutto nell’incapacità di attuare ciò per cui essa era sorta (almeno nelle aspettative iniziali), vale a dire dei governi stabili in un quadro di alternanza bipolare.
Nel 2013 andrà a scadenza l’esperienza del governo Monti e si tornerà al voto. Il timone della politica italiana dovrebbe passare di nuovo ai partiti. Ma non si può ignorare che il sistema dei partiti è finito in un cul de sac e che non è possibile un puro e semplice ritorno alla situazione precedente, come se nulla fosse successo. Sono necessari cambiamenti profondi, tali da comportare l’uscita definitiva dalla II Repubblica. I partiti naturalmente sono piuttosto restii a mettersi seriamente in discussione. Sul modo però in cui intendono riprendere il timone della politica, non sembra che abbiano risposte da dare.
In particolare, bisognerebbe che dessero delle indicazioni ben precise in merito ai seguenti punti:
• in considerazione del compito di risanamento del governo Monti, che non si esaurirà certo con la sua breve durata e che dovrà proseguire ancora oltre, quale tipo di politica vogliono attuare e quale programma intendono realizzare;
• con quale sistema elettorale intendono andare alle elezioni e se propongono cambiamenti istituzionali;
• con chi intendono presentarsi alle elezioni, e cioè se in coalizione e con quale;
• chi sarà il leader della coalizione e se sarà anche leader del maggiore partito della coalizione o di uno di essi;
• se intendono servirsi delle primarie per la scelta del leader e come procederanno in questo caso;
• se la coalizione da essi scelta sarà compatibile con il tipo di programma che intendono attuare (il dissidio tra programma e coalizione ha caratterizzato tutti i governi della II Repubblica e mascherare le differenze che potrebbero rivelarsi paralizzanti è, come si è visto, controproducente).
La reticenza che i partiti mostrano nel dare risposta a tali quesiti è una dimostrazione del fatto che essi al momento non vedono vie di uscita (e tuttavia si ostinano a considerare il 2013 come una scadenza qualsiasi). Margini di manovra in grado di assicurare un governo stabile al paese al momento non ce ne sono. L’attuale sistema dei partiti non è in condizione di produrre coalizioni che possano essere congruenti con l’attuazione di un programma, qualunque esso sia. Né una coalizione PdL/Lega lo sarebbe (e ne abbiamo le prove, con le vicende dell’ultimo governo Berlusconi), né tanto meno una coalizione Pdl/Lega/Terzo Polo (ammesso che fosse possibile, ma è da escludere). Una maggiore omogeneità si avrebbe con una coalizione tra PdL/Terzo Polo, ma allo stato attuale non ci sono ancora le condizioni per un’alleanza stabile tra questi due partiti (come invece la logica naturale delle cose vorrebbe). In ogni caso, un’alleanza tra i partiti di centro-destra non sarà possibile senza un azzeramento della situazione attuale, che consenta un inizio completamente nuovo. E in definitiva, se non cambia la legge elettorale (nel senso che ora diremo) la coalizione tra queste due forze non sarebbe comunque sufficiente per vincere le elezioni.
Nell’altro schieramento sono presenti disomogeneità non minori, sia all’interno del Pd, che risulta composto da esperienze e culture politiche differenti, sia con gli altri partiti di coalizione quali Sel e Idv. Lo spettro di posizioni qui è molto ampio e si va da una retorica molto battagliera schierata a favore di politiche sociali molto spinte al solidarismo moderato di stampo cattolico. In questo contesto i margini di mediazione sono molto limitati. Ad ogni modo, nemmeno la coalizione di sinistra avrebbe comunque i numeri per vincere le elezioni con l’attuale sistema elettorale. Al Pd servirebbe un’alleanza che, insieme a Vendola e Di Pietro, comprendesse anche il Terzo Polo. Se però risulta già difficile tenere insieme una coalizione di solo centro-sinistra con “foto di Vasto” (come oggi si dice), figurarsi che cosa deve essere una coalizione allargata ai centristi. Un’alleanza Pd/Terzo Polo che spostasse tutto il baricentro della coalizione di sinistra verso il centro, appare altamente improbabile e comunque neanch’essa avrebbe i numeri per vincere le elezioni. Un’ipotesi infine di grande coalizione (Pdl/Pd/Terzo polo), con Monti ancora al governo, equivarrebbe alla resa ancora per molto tempo del sistema dei partiti e ad una aperta ammissione della loro incapacità di far fronte ai problemi del Paese. Comunque, potrebbe essere il male minore.
A questo quadro di paralisi complessiva, va aggiunta ancora una considerazione generale, e cioè che è nella logica stessa della polarizzazione, che pur costringe i partiti a convergere nella stessa coalizione, a far sì che ogni partito tenda ad accentuare le differenze. La polarizzazione non unisce soltanto, ma divide, alle tendenze centripete associa anche tendenze centrifughe. Ogni forza politica coalizzata, infatti, deve evitare di schiacciarsi troppo sulla coalizione, per mettersi quanto più in risalto con il suo elettorato. Invece di produrre stabilità, le coalizioni finiscono per creare maggiore conflittualità. Inoltre, le coalizioni si mantengono solo (e nello stato di precarietà ora segnalato) in caso di raggiunta maggioranza parlamentare, come opposizione invece i partiti ritornano a far parte a sé, a volte anche con una politica di forte differenziazione dagli alleati.
Ci vorrebbe allora un collante molto più efficace per tenere insieme le forze di coalizione. Bisognerebbe che la coalizione esprimesse una leadership propria, frutto cioè di un sistema di designazione che coinvolga tutte le forze coalizzate (e non solo) ed in cui l’intera coalizione possa riconoscersi. Pur con tutti i limiti, le primarie del Pd (e paradossalmente quelle che hanno dato più filo da torcere al gruppo dirigente) si muovono (timidamente) in questa direzione; esse dovrebbero perfezionare questa loro caratteristica ed essere fatte proprie anche dallo schieramento avversario. Poiché in questo modo anche alle formazioni minori della coalizione è data la possibilità di esprimere la leadership, e grazie alla garanzia di alternanza tra maggioranza e minoranza, anche all’interno dello stesso schieramento, che esse offrono, il conflitto (o meglio, la competizione) tra gli alleati si sposterà al momento della designazione della leadership, mentre in seguito sarebbero tenuti a parlare quasi come un sol partito. Ecco perché questa soluzione consentirebbe di passare dal bipolarismo sflilacciato odierno ad un tendenziale bipartitismo (vale a dire a ciò che più nel nostro sistema politico fungere da approssimazione al bipartitismo).
Questo nuovo corso può venire favorito dal sistema elettorale adatto, che in questo caso non potrà essere se non il maggioritario uninominale a turno unico. Il turno unico è importante, perché così evita le alleanze posticce dell’ultimo momento. Il maggioritario inoltre consente di vincere purché si sia i primi, e quindi senza il bisogno di raggiungere il 51% dei voti e senza bisogno neppure di formare schieramenti eterogenei. Esso non ha bisogno di artifici odiosi come il premio di maggioranza. Infine, a differenza del sistema attuale, determina il successo dei leader e non della “anonima coalizione”. E, con il leader, è un intero gruppo dirigente a vincere, non un capo che poi si sceglie arbitrariamente la sua corte. Con il maggioritario, piuttosto che ricercare “le larghe intese” o il patto tra partiti eterogenei, saranno possibili coalizioni tra partiti che si muovono entro uno spettro di posizioni non così diversificato da non consentire l’attuazione di un programma minimamente coerente. Le coalizioni potranno così essere più piccole e dunque anche più omogenee. Al Cavaliere fino ad ora per vincere è stato necessario mettere insieme Fini e Bossi, ma se ci fosse stato il maggioritario integrale a turno unico gli sarebbe bastato uno solo di questi alleati, che naturalmente sarebbe stato quello più affine (anche perché quello più forte, cioè la Lega, non avrebbe potuto coalizzarsi con un avversario ancora meno omogeneo, vale a dire il Pd, e quindi non avrebbe avuto alcun potere di deterrenza). E così Prodi avrebbe potuto fare a meno o di Rifondazione comunista o di Mastella oppure di tutte e due. Oggi basterebbero delle coalizioni solo a sinistra o solo a destra o tra centro e sinistra, da un lato, e centro e destra, dall’altro, per arrivare a governi stabili.
Ma, ripetiamo, il presupposto perché una nuova legge elettorale abbia efficacia, è che si modifichino anche i partiti, vale a dire che i partiti attuino un profondo rinnovamento interno e che, al limite, dove possibile procedano ad un loro autoscioglimento per arrivare a dare vita a formazioni del tutto nuove.
I partiti hanno oggi il problema di superare la crisi di leadership, la crisi di progettualità, di legittimità e di credibilità che al momento attraversano. La loro offerta politica è indigesta a gran parte dell’elettorato (secondo un sondaggio di Mannheimer, il 70% degli elettori oggi non saprebbe chi votare). I partiti hanno la necessità vitale di riguadagnare la fiducia dei cittadini. Un profondo rimescolamento di carte all’interno dei partiti è perciò d’obbligo. E, come detto, con i partiti anche le modalità di coalizione dovrebbero cambiare.
Questo comporta che gli attuali assetti tra i partiti e all’interno dei partiti vengano messi in discussione e che si proceda a forme di legittimazione dal basso (cioè in interazione con la società civile, intesa non solo come espressione di interessi particolari, ma come insieme dei cittadini che hanno senso civico) tanto degli apparati dirigenti, quanto degli indirizzi politici prevalenti.
Una volta che, per il tramite di procedure democratiche, siano emerse delle posizioni maggioritarie, sarà necessario che le forze affiliate si impegnino unitariamente per la loro realizzazione, fermo restando che la responsabilità principale è della leadership in cui esse s’incarnano e che sarà essa a renderne conto in caso di sconfitta elettorale. La garanzia per cui anche alle forze minoritarie dello schieramento alleato viene data la possibilità di diventare maggioranza (e quindi di esprimere il leader della competizione elettorale), dovrebbe in cambio suscitare una maggiore unità d’azione ed una maggiore integrazione tra le forze affiliate, per cui anche se non si arriva al partito unico, si forma comunque uno schieramento veramente unitario articolato in più posizioni tra loro non in conflitto, ma in competizione, nei tempi e nei modi opportuni (cioè in occasione delle primarie).
La cosa fondamentale è che all’interno delle rispettive coalizioni ci sia abbastanza fluidità e possibilità di movimento per poter procedere a forme di selezione del personale politico, senza che siano l’appartenenza al partito o le decisioni di vertice a stabilire chi candidare e per che cosa. È necessario insomma che attraverso un sistema di primarie correttamente impostate, quindi superando tutti i limiti che esse oggi presentano (della «natura “bizzarra” delle primarie all’italiana» accennava recentemente Panebianco sul Corriere della Sera del 6 marzo, dove però si manifestava una completa rassegnazione al proporzionale), sia possibile un avvicendamento dei vertici e, se il caso, un profondo rimescolamento negli assetti di partito e tra partiti coalizzati.
Per evitare che il sistema delle alleanze si areni nelle secche delle posizioni consolidate e che produca la sclerosi dei gruppi dirigenti, è necessario che la posizione di leadership sia attribuita tramite competizione, non solo all’interno dei singoli partiti, ma anche tra i partiti coalizzati (e dunque che tutti i candidati siano candidati di coalizione e non di partito, in modo da aggirare in qualche modo il pluripartitismo).
Frutto di competizione, alla leadership bisogna poi lasciare il compito di guidare la coalizione nel modo più fermo possibile e di portarla alla sfida elettorale con la coalizione avversaria per la conquista del governo del Paese. Qui o si vince o si perde: la sconfitta deve significare, per il gruppo dirigente che la subisce, anche la sua scomparsa dalla scena politica. Ma anche nella vittoria il gruppo dirigente deve essere incalzato dalle nuove leve che premono per prenderne il posto. E d’altronde, il gruppo dirigente, quando risulta vincente a livello politico, ha una sua stagione di successo, breve o lunga che sia (generalmente non si va oltre le tre legislature), passata la quale arriva un declino inesorabile anche per il leader più carismatico (se riesce a stare fino a vent’anni sulla breccia, generalmente fa una fine ingloriosa).
Non si deve dimenticare dunque che il partito e la coalizione tra i partiti vanno intesi come ambito di pre-selezione democratica (dal basso) dei candidati alla competizione elettorale e quindi dei gruppi dirigenti che si affrontano per la conquista del potere politico (cioè per definire chi deve guidare le istituzioni e con quale indirizzo politico). Le coalizioni devono funzionare come sistemi di riduzione della complessità, fornendo cioè alla sfera della legittimazione pubblica i candidati più adatti (vale a dire quelli già vagliati al loro interno) a raccogliere consenso in vista dell’attuazione di un determinato programma politico.
L’oggetto della competizione elettorale è il potere. Ma il potere non può esserne l’oggetto diretto, quando lo è siamo ad una degenerazione della democrazia, anzi ad un suo esautoramento. In condizioni di democrazia, la competizione per il potere si svolge sotto forma di competizione per il consenso e in un sistema in cui la competizione rimane il tratto costante di una formazione politica, si assicura così non solo la selezione, ma anche il ricambio dei gruppi dirigenti. La selezione non incorona nessuno vita natural durante, ma affida ad una leadership il compito di portare uno schieramento politico alla vittoria nella competizione elettorale. La scelta della leadership può rivelarsi immediatamente sbagliata, ed allora si procederà a sostituirla con un’altra, oppure essa sarà sottoposta al naturale logoramento a cui ogni leadership è esposta. Perché, come diceva Machiavelli, i tempi cambiano, mentre gli uomini tendono a rimanere gli stessi, onde col mutamento dei tempi è necessaria anche una nuova classe politica. Tutti gli attuali leader politici italiani hanno fatto il loro tempo, ma prima della loro definitiva sostituzione possono rendere ancora un importante servizio al Paese: quello cioè di liberare il sistema politico dall’attuale impasse. Certo, è una scommessa azzardata: nessuno infatti, fin qui, sembra corrispondere alla machiavelliana “qualità dei tempi”, che richiede il subitaneo orientamento con le “esigenze dell’ora storica”. Ma speriamo di sbagliarci.
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