di Alessandro Campi
I partiti – dicono i sondaggi – sono al minimo storico dal punto di vista del consenso e della credibilità. Gli italiani in maggioranza non li ritengono affidabili. Peggio, li considerano responsabili (tutti, senza esclusioni) della grave situazione, economica ed istituzionale, in cui versa il Paese. Più in generale, i cittadini non si fidano più dei politici di professione, accusati – come del resto conferma la cronaca – di sperperare le risorse pubbliche, di non essere all’altezza dei problemi che dovrebbero affrontare e di pensare solo a come perpetuare le posizioni di privilegio di cui godono.
Ed è proprio quest’atteggiamento critico nei confronti della politica e dei suoi attori tradizionali, sempre più pronunciato negli ultimi mesi, che spiega, da un lato, il favore con cui è stato accolto l’esperimento del governo tecnico, e dall’altro l’orientamento verso l’astensionismo di molti elettori o la loro incertezza su come votare in occasione delle prossime consultazioni politiche generali.
Per uscire da questa difficile condizione, che rischia di marginalizzarli anche nel prossimo futuro o di condannarli ad una crescente ininfluenza, i partiti – spiegano molti osservatori – non hanno che una strada: modificare radicalmente il loro modo di fare e di essere, mandare all’opinione pubblica un chiaro segnale di cambiamento. Per restituire alla politica il prestigio perduto occorre insomma che i partiti si rinnovino al loro interno (anche dal punto di vista della dirigenza), che riscoprano il senso del limite e della morale e che dimostrino di avere idee chiare su come affrontare, in modo concreto ed efficace, i problemi dell’Italia. E tutto questo dovrebbe avvenire – se si vuole superare l’emergenza che ha costretto il Presidente della Repubblica al varo di un esecutivo tecnico – entro la primavera del 2013.
Secondo alcuni, ai partiti si rischia di chiedere l’impossibile. Hanno avuto a disposizione vent’anni, quelli della cosiddetta Seconda Repubblica, per strutturarsi dal punto di vista organizzativo, per selezionare un personale politico capace e per darsi un profilo ideale e programmatico minimamente compiuto e organico. Avendo fallito questi obiettivi in un tempo così lungo, sino a ridursi a consorterie affaristiche o a comitati elettorali al servizio di questo o quel singolo leader, non si capisce come possano riuscire a conseguire l’obiettivo di un profondo rinnovamento nell’arco di pochi mesi. A meno di pensare che basti cambiare di nome alle attuali forze politiche o inventarsi dal nulla un ennesimo partito per avviare una stagione nuova della politica italiana.
Secondo altri il miracolo potrebbe invece riuscire. Sarebbe sufficiente mettere mano a qualche significativa riforma per recuperare, almeno in parte, la fiducia dell’opinione pubblica e per stabilire un rapporto nuovamente virtuoso con gli elettori. Basterebbe, ad esempio, cambiare l’attuale legge elettorale (quella, per intenderci, che consente alle attuali oligarchie di partito di nominare i parlamentari secondo criteri di fedeltà e di obbedienza) per cominciare a invertire la rotta. Oppure ci si potrebbe impegnare – dopo anni di inutili discussioni – in una seria riforma delle istituzioni repubblicane (per renderle più funzionali alle esigenze di una grande democrazia occidentale) o nel varo di misure rigorose per la lotta contro la corruzione.
Esattamente la strada che i partiti, almeno quelli principali, stanno cercando di percorrere, proprio con la finalità di riaccreditarsi come soggetti responsabili, attenti al bene comune più che ai loro particolari interessi. Ma se questa è l’intenzione – recuperare quanto prima possibile la fiducia degli italiani – c’è una cosa che essi potrebbero fare in capo a pochi mesi e che li renderebbe per davvero credibili: modificare in modo radicale il meccanismo cosiddetto dei rimborsi elettorali (un eufemismo normativo dietro il quale si nascondono i finanziamenti statali ai partiti).
In questo particolare frangente, causa la crisi dei conti pubblici e i molti sacrifici che sono stati imposti loro per superarla, gli italiani sono sensibili come non mai alle questioni economiche e finanziarie. Assai meno ai temi istituzionali o al tormentone sulla legge elettorale. L’idea che i partiti abbiano le casse piene di soldi (soldi, beninteso, dei contribuenti) e che possano disporne non solo senza risponderne a nessuno ma spesso – come dimostra il caso esemplare del tesoriere della Margherita – per fini privati, mentre i cittadini si vedono imporre nuove tasse e riduzioni nei loro salari, non può che risultare intollerabile e contribuire al risentimento nei loro confronti.
Come dimostrano ricerche e inchieste di cui molto si è parlato sulla stampa in tempi recenti, i partiti, grazie ad una legislazione farraginosa che tutti insieme hanno voluto, nel corso degli ultimi due decenni (da quando, per aggirare il referendum abrogativo del finanziamento pubblico voluto dai radicali nel 1993, è stato introdotto il meccanismo dei rimborsi) hanno incassato cifre stratosferiche, senza alcuna connessione con le spese effettivamente sostenute per la loro attività politica. Senza considerare, accanto ai rimborsi, le altre forme indirette di contribuzione pubblica di cui hanno goduto: ad esempio i soldi dati alla stampa di partito (compresa quella fasulla).
Un fiume di denaro – assegnato peraltro senza imporre alcun criterio di trasparenza o alcun obbligo di rendicontazione – che da un lato non è servito a ridurre la corruzione e il malaffare politico-amministrativo e dall’altro ha trasformato i partiti (che nel frattempo hanno assunto una connotazione sempre più personalistica) in veri e propri comitati d’affari, interessati più alla propria autoconservazione e al mantenimento delle loro rendite di posizione che al benessere collettivo.
Certo, non è facile chiedere ai partiti di rinunciare ai flussi di soldi pubblici che in tutti questi anni si sono generosamente – e irresponsabilmente – assegnati. Ma se lo facessero – equiparando i rimborsi alle spese realmente sostenute, accettando di sottoporre a verifica contabile i loro bilanci, dando conto pubblicamente del modo con cui spendono i soldi degli italiani – forse questi ultimi potrebbero tornare a fidarsi di loro e a credere nuovamente nella politica. Ma lo faranno?
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