di Manlio Lilli
“E’ difficile distinguere l’Andreatta economista dall’Andreatta politico. Non certo perché l’economista sia stato suddito delle esigenze di breve periodo della politica: al contrario la sua visione lucida, da tecnico, lo ha messo in grado, da politico, anche di sfidare l’impopolarità. Come ministro, come parlamentare, come intellettuale, ha immaginato, creato meccanismi istituzionali all’interno dei quali si potessero realizzare politiche coerenti”. Con queste parole nel maggio 2008 il Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, iniziava il suo discorso al convegno su “Beniamo Andreatta economista”.
Più recentemente, alla metà dello scorso dicembre, la presentazione dei suoi discorsi parlamentari presso la Sala della Lupa di Montecitorio, di fronte al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano e al Presidente della Camera, Gianfranco Fini, oltre che di fronte a Giuliano Amato, Romano Prodi, Giuliano Urbani e Giovanni Bazoli, ha costituito molto più della consueta celebrazione di una figura della politica italiana (Discorsi parlamentari, presentazione di Gianfranco Fini, a cura di Enrico Letta, 2011, pp. XXXVIII-1183). Si é trattato di un più che meritato focus su una personalità poliedrica della storia recente del Paese. L’impossibilità a fornirne una definizione tout court rappresenta, forse più che nessun altra, la sua peculiarità distintiva. Ripercorrere le linee guida della sua azione permette di far emergere il suo spirito libero, il suo essere intellettualmente, politicamente e moralmente assolutamente non banale. Il rimanere convinto servitore delle istituzioni, mai accettando di piegarsi alle convenienze e alle convenzioni. Da cattolico denunciò le malefatte della finanza vaticana. Fu anticomunista, ma ostile anche a Craxi. Fieramente antiberlusconiano, inventò l’Ulivo e la candidatura di Prodi.
Celebre, tra gli interventi riuniti nel volume, oltre che paradigmatico del suo guardare al di là degli interessi di parte e degli steccati ideologici, quello in cui riferì pubblicamente, da cattolico, delle gravissime responsabilità della banca vaticana, lo Ior, e di Paul Marcinkus. Fu un autorevole esponente della Dc, prima consigliere economico di Aldo Moro e poi a lungo parlamentare e tante volte ministro. Ma l’essere parte dell’organizzazione politica non si tramutò mai nel divenire di parte, cioè seppe mantenere un equilibrio ed una oggettività non comune nelle occasioni nelle quali gli sarebbe stato più agevole non esserlo. Con questo logica avversò le pratiche correntizie e clientelari ed, in particolare, come responsabile del dicastero del Tesoro, seppe respingere le pressioni e impose, nel 1981, lo scioglimento e la liquidazione del Banco Ambrosiano. In anni di difficile stagione economica e finanziaria nei quali gli interventi di spesa erano spesso sostenuti in deficit, con il conseguente raddoppio del debito pubblico, Andreatta tentò di porvi un argine, in un’epoca in cui l’articolo 81 della Costituzione era considerato poco più che un optional. E fu una decisione storica, quella che condusse a esentare la Banca d’Italia dall'”obbligo” di acquistare i titoli del Tesoro non collocati sul mercato. Ancora attuale il discorso che tenne in Senato l’8 ottobre 1981, quando sostenne la necessità di procedere a una “riduzione non effimera dello squilibrio tra spese e entrate del bilancio dello Stato”. Rigore, massima attenzione agli equilibri di bilancio, con lo sguardo rivolto all’equità i suoi auspici, sfortunatamente non seguiti. Contenuti, idee, ma anche forma. Come indizia l’introduzione nel dibattito parlamentare del meglio, anche per quel che riguarda il linguaggio, della cultura occidentale e degli studi accademici. Dopo i primi discorsi nei quali vi é un ironico accenno al fatto di esser stato rimproverato per aver utilizzato dei termini in inglese nel Parlamento italiano, praticamente in ogni occasione, egli ne utilizza, fino a farli divenire di uso corrente. Non si tratta però dello snobistico ricorso a citazioni colte, ma la convinzione che l’introduzione della terminologia delle scienze sociali, che lo avevano segnalato originariamente alla vita pubblica, potesse dare maggior forza ai temi proposti.
Ma molto aveva offerto di sé stesso prima di questa felice stagione, impreziosita dalla sua sfortunata candidatura nei primi anni Ottanta a sindaco di Bologna e terminata dalla caduta fragorosa della prima Repubblica. Protagonista della storia dell’università italiana, fu un economista dello sviluppo, convinto sostenitore del mercato e della competizione, ma anche meridionalista e, in quest’ottica, promotore della nascita di un campus di ispirazione anglosassone a Cosenza. La disillusione che il mancato decollo di quel progetto gli provocò non fu il pretesto per mutare i suoi propositi. Così, allo stesso modo, quando nel 1994, mani pulite fece tabula rasa del sistema politico italiano e Silvio Berlusconi si fece trovar pronto all’appuntamento con la storia, Andreatta non fu tra quelli che rimasero folgorati dal suo appeal. A suo giudizio risultava inammissibile che a capo di quella “destra gaglioffa” ci fosse, addirittura, un monopolista. A lui che, insieme a Mino Martinazzoli, aveva tentato fino all’ultimo il salvataggio della moribonda Dc, le elezioni del ’96 fornirono l’occasione per sperimentare una sua intuizione. Per dar vita ad un progetto nuovo, quello dell’Ulivo. Che plasmò insieme a i leader della coalizione antiberlusconiana, consegnandone a Romano Prodi, suo vecchio allievo, il comando. Anche questa si dimostrò alla lunga un’illusione, ma non per questo si dette per vinto. Continuando ad inseguire un sogno con “cocciuta capacità di guardare avanti”. Perché a dispetto degli incarichi ricoperti, delle sedi nelle quali si trovò ad operare Andreatta, come ha osservato Giuliano Amato, é stato “un cervello che vedeva le cose in funzione del modo in cui le si poteva cambiare”.
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