di Guido Lenzi*
La vicenda dei ‘marò’ italiani incriminati in India presenta una serie di implicazioni, ben oltre l’antica questione della libertà dei mari. Dai tempi di Ulisse, il mare non separa: deve invece costituire un ambito di esplorazioni, scambi, collegamento. Alcuni crocevia, il Mediterraneo, i Dardanelli, il canale di Suez, il Golfo arabico, gli stretti di Malacca, il mar di Cina meridionale, sono zone di ricorrenti tensioni o altre turbative di precari equilibri. La libera navigazione è stata e rimane un pilastro dei rapporti internazionali, un principio inalienabile, un diritto naturale, al pari dell’accesso alle risorse naturali. Ogni ostacolo al loro utilizzo è stato considerato e rimane ‘giusta causa’ bellica. Inverosimile è pertanto che, dopo ben due secoli, la pirateria torni ad infestare i mari.
Oltre che nelle proprie acque territoriali, ogni stato conserva piena sovranità sui suoi legni in alto mare. Difficile si è però sempre rivelato stabilire in proposito una precisa disciplina. Per porre termine agli antagonismi fra potenze marittime, la libertà dei mari (“in pace e in guerra”) compare nei ‘Quattordici punti’ di Wilson e (come “libertà di commercio e di navigazione”) nella ‘Carta atlantica’ di Roosevelt che definiva gli scopi di guerra nel secondo conflitto mondiale. La Convenzione di Montego Bay del 1982, nel delimitare gli ambiti di sovranità e di competenza nelle acque internazionali (art. 97), non ha poi però disposto le regole da seguire per l’assunzione di responsabilità comuni. Né vi possono più essere, come in passato, delle potenze marittime, padrone dei mari, impegnate nel garantirvi l’ordine internazionale (con la giustificazione storica del colonialismo che ne conseguì). La materia va quindi elaborata sulla base delle specifiche, concrete situazioni geopolitiche, tenendo anche presenti i collegamenti intrinseci con il terrorismo e la criminalità organizzata internazionali. Come due secoli fa, la presa di ostaggi, la richiesta di riscatti non possono configurarsi come responsabilità di ‘Stati ribelli’, bensì semmai di ‘Stati falliti’, il che giustifica l’intervento della comunità internazionale, a fini riparatori. Trattasi di fattispecie non belliche, bensì di polizia internazionale. Il che esige la collaborazione o quanto meno la convergenza di intenti in un più preciso operato internazionale.
L’Unione europea ha disposto dal 2008 una missione comune anti-pirateria al largo della Somalia, denominata Atalanta (EUNAVFOR), che ha sinora controllato 117 navi sospette e arrestato oltre mille pirati. Il Consiglio dei Ministri degli Esteri ne ha appena deliberato il prolungamento fino al 2014 e rafforzato il mandato consentendo di colpire le basi dei pirati in territorio somalo, Paese notoriamente dissestato e incapace di assicurare la legge e l’ordine interno (e pertanto indiscutibilmente ‘fallito’). Si deve argomentare che tale decisione comunitaria, in deroga al diritto internazionale generale anche se nello spirito delle relative Raccomandazioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, costituisca di per sé un’adeguata legittimazione internazionale, oltre che uno sprone alla più vasta comunità internazionale a procedere nel medesimo senso innovatore della prassi internazionale.
Alquanto sorprendenti sono le analogie della situazione odierna con la situazione nel Mediterraneo dal Cinquecento, quando Carlo V fece bombardare i covi ‘barbareschi’ ad Algeri e Tunisi, al 1802, che vide persino i ‘marines’ americani, per ordine di Jefferson, sbarcare a Tripoli (il loro inno ne registra ancor oggi le gesta). Nel ‘600, a proposito dell’Adriatico, Paolo Sarpi affermava che ”vana sarebbe la difesa dell’alto mare quando i violatori di quello fossero salvi nei seni e nei porti … non raffrenati da chi domina il mare … Per la quale ragione la giurisdizione del mare si estende anche ai lidi che hanno bisogno della stessa custodia e protezione”. A fine Ottocento, un anonimo giureconsulto napoletano soppesava in un’apposita ‘Memoria’ i pro e i contro di un “sistema di pace e guerra delle potenze europee con le reggenze di Barberia”: per le potenze che dominano il Mediterraneo – scriveva – “la guerra è spesso necessaria, e la loro pace sempre precaria … ciascuna di esse ha avuto i suoi momenti di collera contro gli Affricani, e ciascuno a vicenda ha tentato, e ceduto con perdita e con umiliazione; … l’aver supposto i Barbareschi nemici deboli, disprezzabili e di facile conquista è sempre stato il massimo errore; … la sola ragione di interesse e di commercio ha portato allo stabile accomodamento”. Argomentando che “forse il maggior nemico dei nostri vantaggi sarà sempre la nostra disunione; è forse colpa nostra se l’Affricano ci umilia e ci disfida”, concludeva: ”può ottenersi la pace o con offerire una pace di interesse, o con sostenere per qualche anno una guerra di terrore”. Considerazioni che non paiono aver perso validità.
Persino nella materia, assimilabile per tanti versi a quella della pirateria, delle immigrazioni illegali nel Mare Nostrum. Come altrimenti si possono valutare ed affrontare le flottiglie di clandestini sfruttati da trafficanti di esseri umani? Il loro operato appare paradossalmente protetto dalla normativa europea che induce la Corte europea per i diritti dell’uomo (con la sua sentenza del 23 febbraio scorso, “Hirsi e altri c. Italia”) ad applicare il principio del non respingimento in modo indiscriminato a masse di immigrati, invece che a casi singoli, contestando persino la validità dei relativi accordi bilaterali. Con l’argomentazione che le condizioni negli Stati di provenienza sono “inumane e degradanti” (il che fornisce implicitamente alimento alle ragioni degli ‘interventi umanitari’ in stati da considerare implicitamente ‘falliti’). Né può considerarsi applicabile sic et simpliciter, come argomentato da taluni, l’art. 10 della Costituzione che accorda il diritto di asilo a “lo straniero al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche”. Una formulazione che riguarda chiaramente casi singoli e non indiscriminati flussi immigratori. Senza contare le ripercussioni elettorali negative per la stessa ulteriore evoluzione della pur necessaria politica comune europea.
Da dieci anni, la piaga della pirateria si è riproposta dapprima negli Stretti di Malacca e poi dal Mar Rosso alle Seychelles. Nella graduale accondiscendenza degli Stati (e degli armatori) interessati, restii a ‘militarizzare’ la questione, disposti piuttosto a sottoscrivere più elevati premi di assicurazione e giungere a patti con i criminali dei mari. Le condizioni al largo della Somalia hanno invece aperto gli spazi per un più deciso operato internazionale, inficiato però anch’esso da ostacoli giuridici: un centinaio di arrestati sono tuttora in attesa di giudizio, e molti sono stati semplicemente disarmati e rilasciati, per le incertezze sulla giurisdizione cui affidarli.
In questo come in tanti altri casi internazionali, è ormai palese la necessità di adeguare le modalità di applicazione del diritto internazionale, partendo dalla pratica di quei comportamenti collettivi convergenti che, sedimentandosi, ne determinano l’evoluzione e il consolidamento. Tenendo presente che, come diceva il diplomatico Roberto Ducci, “quando si combatte per gli oceani, non si disputa più per un golfo, si cerca un modo di vivere assieme e, se necessario, di difenderlo assieme”. E’ proprio alla diplomazia che spetta oggi il compito di ricomporre il sistema internazionale, secondo le regole del liberalismo democratico, collaborativo, piuttosto che su quelle dell’antico, ormai improponibile, dell’equilibrio di forze.
Il che ci riconduce al caso dei nostri militari arrestati in India. La loro presenza a bordo di una nave da carico, consentita dalla legge n.130 del 2011 in attuazione delle risoluzioni dell’ONU (e della Convenzione del 1988 per la Sicurezza della navigazione marittima), oltre che allo specifico interesse nazionale, rispondeva alle predette sopravvenute necessità internazionali. Ne consegue la loro immunità funzionale (analoga a quella, spesso indebitamente contestata, che gli Stati Uniti pretendono per le loro truppe in missione in territorio straniero, e pertanto sulla base di appositi ‘accordi sullo status delle forze’). Si potrebbe semmai obiettare che l’improvvida decisione del comandante di ottemperare all’ingiunzione delle autorità indiane abbia rappresentato un rinuncia a tale immunità. Da Delhi bisognerebbe comunque sapere se e come intenda proporsi come membro attivo della comunità internazionale.
In particolare di quei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) che intendono ottenere il riconoscimento di un loro status di potenza globale. Uno status che non può consistere soltanto nel rivendicare una formale maggiore dignità ed i relativi diritti, ma comporta l’assunzione delle relative responsabilità per la ricomposizione e gestione dell’ordine internazionale. Ciò vale in particolare per l’interesse strategico dell’India, più largamente inteso. Soprattutto perché anche la Cina intenda, rispetto al Mare cinese meridionale. Le nuove potenze marittime dovrebbero aver interesse non soltanto a rivendicare un maggior controllo nazionale sulle acque limitrofe al loro territorio, ma anche ad assumersi le rispettive responsabilità nel regolamentarne il traffico, se non altro per ridurre che altri, estranei alla regione, lo facciano. (Più defilata può invece rimanere la Russia, potenza prevalentemente continentale dopo il disastro di Tsushima e le sue più recenti poco conclusive esperienze nel Mediterraneo).
*Ambasciatore
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