di Alessandro Campi

Più che la notizia – le dimissioni irrevocabili di Umberto Bossi da segretario del movimento di cui è stato il fondatore e leader incontrastato per quasi un trentennio – colpiscono le motivazioni che hanno portato ad una decisione tanto clamorosa al termine di una concitata e drammatica riunione del consiglio federale della Lega.

Non l’ha travolto la malattia o una cocente sconfitta elettorale, non l’hanno battuto i nemici interni bramosi di succedergli, ma una storia di ordinario malcostume, molto italiana, assai provinciale e misera, nella quale la politica rimane sullo sfondo e sembra rappresentare, per i protagonisti dell’intera vicenda, solo un pretesto per modesti maneggi economici ad uso di famigliari e amici. Non stiamo parlando di corruzione, di tangenti o di arricchimenti illeciti, a colpi di milioni di euro e per alimentare chissà quali sporchi affari, ma di cose piccole, meschine e volgari: soldi pubblici, nemmeno tanti, dirottati dalle casse del partito per pagare la ristrutturazione di una casa, l’acquisto o il noleggio di un auto, il conseguimento di un diploma o di un’inutile laurea, e il tutto a beneficio dei consanguinei di un tribuno sanguigno probabilmente ignaro dei movimenti di denaro e dei sotterfugi contabili che avvenivano sotto il suo naso.

Un’uscita di scena, quella dell’Umberto, ingloriosa e persino ingiusta per un combattente della sua tempra, che certo non poco deve avere sofferto nello scoprire che a tradirne la fiducia e la buonafede – e a svilirne l’impegno politico e le battaglie di molti anni – sono stati i suoi parenti più prossimi e quelli della sua cerchia più intima. Ma forse non poteva andare altrimenti, dopo che anche la Lega – seguendo l’andazzo nazionale – si era andata trasformando negli ultimi anni, anche per colpa del medesimo Bossi, in un partito a conduzione privatistica, retto da un’oligarchia all’interno della quale gli incarichi ufficiali si mischiavano ormai con le parentele e gli affetti personali. Quella cartellina ritrovata nella cassaforte del cassiere del partito, intestata “The family”, più che una nemesi storica suona tanto come una beffa voluta dal destino: dopo decenni passati ad d’irridere l’antropologia italiota e il parassitismo meridionale scoprire di esserne vittima chissà quali tristi pensieri deve aver suscitato, oltre che nella testa del leader leghista, tra gli alfieri del virtuosismo nordista e in quel popolo delle camicie verdi sempre pronto a prendersela col ladrume romano.

Il passo indietro di Bossi segue quello di Berlusconi, avvenuto anch’esso sotto la spinta di ragioni non propriamente politiche: l’acuirsi drammatico della crisi economica, certo, ma anche le smodatezze senili che avevano finito per farne un capo politico prigioniero del vizio e incapace di guidare le sue truppe litigiose. Viene facile parlare, a questo punto, di una svolta epocale, della fine di un ciclo storico almeno ventennale dal quale tuttavia non s’intravvede una ragionevole via d’uscita. Il fallimento delle speranze che avevano fatto nascere la Seconda Repubblica appare conclamato, a questo punto, ma ciò che verrà dopo resta un mistero. Un lungo interregno tecnico, come molti auspicano, o l’irrompere sulla scena di qualche nuovo avventuriero, pronto a cavalcare il disagio sociale e il cattivo umore degli italiani?

La Lega, un tempo pura e dura in fatto di morale pubblica, orgogliosa della sua diversità, dopo questa triste vicenda risulta ormai un partito come gli altri, con gli stessi vizi e le stesse debolezze, senza più una grande credibilità da vantare agli occhi del mondo. Si è affidata in tutta fretta ad un triunvirato che dovrà gestire, nei prossimi mesi, una difficile lotta di successione, ma è chiaro che dovrà inventarsi, oltre un nuovo leader, anche qualcosa di originale dal punto di vista della predicazione e dello stile. Con Bossi probabilmente va in soffitta l’epopea eroica del padanismo, col suo folclore tribale e le sue parole d’ordine spesso triviali. Si potrà più parlare di secessione dall’Italia o di annessione alla Svizzera dopo aver dimostrato di essere, ancorché baciati dal sole delle Alpi, degli italiani da rotocalco?

Ma entra in crisi anche la linea – che si era riproposta dopo la nascita del governo Monti – dell’arroccamento e dell’intransigenza, dell’opposizione senza sconti. In attesa che Maroni, o chi per lui, si inventi una nuova Lega, il buon senso potrebbe consigliare, nell’immediato, la ricerca di accordi e sponde politiche, a partire da quelle con l’alleato tradizionale di recente ripudiato. Chi nel Carroccio pensava a fagocitare l’elettorato deluso del Pdl, soprattutto al Nord, deve ora stare attento a che i propri elettori non si ritraggano disgustati o non si buttino nelle mani di qualche altro agitatore di folle. C’è da capire, infatti, cosa ne sarà, a questo punto, del blocco sociale e politico che per anni ha sostenuto il centrodestra e che in pochi mesi – scomparso dalla scena Fini, dimessisi in malo modo Berlusconi e Bossi – ha perso tutti i suoi storici leader di riferimento.

Nata male, l’Italia politica post-tangentopoli non poteva che finire peggio, con un passaggio da manuale dalla tragedia alla farsa che non promette nulla di buono. Oggi è toccato a Bossi andarsene senza gloria, chi sarà il prossimo a cadere per un volo aereo a spese dello Stato, per una vacanza pagata dai contribuenti o per aver scroccato una cena al prossimo?

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