di Daniela Belliti
Il titolo dell’articolo di Danilo Breschi pubblicato dall’Istituto di politica (“Uscire dalla II Repubblica? No, uscire dalla nostra storia“) già dichiara il forte pessimismo dell’autore circa la possibilità di uscire dalla crisi, economica, politica e morale, nella quale l’Italia versa ormai da molto tempo. Breschi definisce questa un’impresa impossibile. E lo è sicuramente dentro quella prospettiva di carattere antropologico-culturale, che ancora prima dell’unificazione nazionale faceva dire al Giacomo Leopardi del Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani che “le classi superiori d’Italia sono le più ciniche di tutte le loro pari nelle altre nazioni. Il popolaccio italiano è il più cinico de’ popolacci”.
Sembra essere, questo pessimismo antropologico, una manifestazione di sano realismo. Il 2011, inaugurato con le celebrazioni del 150° su cui il Presidente della Repubblica tanto si era impegnato, è proseguito con l’incubo della bancarotta e l’affidamento delle sorti del Paese al Governo dei tecnici. Come Breschi giustamente osserva, la classe dirigente italiana tutta, e non solo quella politica, ha abdicato per consegnarsi all’ultima spiaggia di una tecnocrazia preparata e stimata, ma anche fortemente decisionista.
Per quanto non neghi la validità di molti argomenti usati, nel descrivere la genesi e l’evoluzione dello Stato italiano indebolite dagli elementi di familismo atavico (amorale, come dicono alcuni), di clientelismo personale, di scarso senso di civismo, tuttavia preferisco adottare un approccio meno assoluto e meno globalista davanti all’attuale fase storica dell’Italia, limitandomi a considerare gli avvenimenti degli ultimi vent’anni. Non tanto perché non consideri responsabili anche i governi della prima storia repubblicana dell’attuale condizione di crisi italiana; non c’è dubbio che il debito pubblico, il peggior nemico della nostra rinascita, sia frutto di decenni “allegri”, in cui le risorse pubbliche sono state sprecate o spese male per gonfiare la macchina burocratica-amministrativa e svuotare le prospettive di un’economia autonoma e imprenditorialmente attiva e dinamica.
Piuttosto l’elemento che maggiormente mi distingue dall’analisi di Breschi – e non solo dalla sua – riguarda la definizione di ciò in cui siamo ora: la Seconda Repubblica, nata dopo il crollo del Muro di Berlino e Tangentopoli, che ha significato in Italia la fine dei grandi partiti di massa, PCI, DC e PSI, dicono i più; l’epigono della Prima Repubblica, dico io. In sostanza, io penso che dagli anni Novanta ad oggi, con il berlusconismo e i suoi imitatori più o meno maldestri di destra e di sinistra, non abbiamo altro che conosciuto il declino lungo e fastidioso della Prima Repubblica, con la stessa classe politica, i soliti boiardi di Stato, i soliti capitalisti più o meno illuminati ma sempre molto aiutati dallo Stato. Ingannati dall’introduzione di un sistema elettorale simil-maggioritario, abbiamo creduto che fosse cambiato tutto nei meccanismi della rappresentanza e della selezione della classe dirigente, del rapporto tra cittadini e istituzioni. È accaduto esattamente il contrario, e cioè una perpetuazione con nuove regole dei soliti apparati di potere, con una politica semmai più debole e quindi subalterna ad altri poteri. La scarsa credibilità e la continua delegittimazione della politica e dei soggetti che la animano, i partiti, derivano soprattutto dal fatto che la politica ha dimostrato di non saper decidere mai niente e di essere sostanzialmente impotente di fronte ai processi di globalizzazione economica e finanziaria e alla crescente diseguaglianza sociale che ne è derivata.
Non sarà un caso se in questi decenni, le scelte importanti per salvare il Paese sono state compiute da Governi tecnici: Amato, Ciampi, Dini…, mentre i Governi politici hanno sempre fallito l’obiettivo.
Allora il punto è se anche questa volta dopo Monti tornerà una politica inadeguata che riprenderà a sperperare quel poco che abbiamo risparmiato, oppure se la lezione sarà stata appresa. Nel qual caso avremo aperto una nuova fase nella storia italiana, che dal mio punto di vista dovrebbe avere un altro nome rispetto a quello di “Terza Repubblica”.
Io penso che ci troviamo davanti ad uno spartiacque. Questo Governo tecnico non è come i precedenti, e la situazione sociale del Paese è profondamente mutata. Il governo ha una forte popolarità, nonostante i provvedimenti ingrati che sta imponendo; mentre c’è una società civile che ha iniziato a organizzarsi al di là e oltre i partiti, e ha espresso in alcuni momenti recenti un’autonomia politica non leggibile nella tradizionale linea di faglia destra/sinistra. Mi riferisco al movimento delle donne del 13 febbraio, ai comitati referendari per i beni comuni a partire dall’acqua, che hanno impresso una spinta forte al dimissionamento di Berlusconi, travolto poi dal collasso economico del Paese.
Ci sono le espressioni contraddittorie di una inveterata antipolitica, che si radica nel sentimento anti-istituzionale e anarco-individualista dell’Italia, ma c’è anche una ricerca di competenza, di affidabilità, di serietà, che riconosce nei tecnici al Governo degni rappresentanti.
Il punto è se siamo in grado di far tornare a coniugare competenza e politica, affidabilità e fiducia nei partiti, serietà e stile di governo.
Alla base c’è sicuramente la necessità di mettere al centro l’educazione, l’istruzione, la cultura civica nelle nuove generazioni, ma c’è anche la possibilità di agire fin da subito raccogliendo queste istanze di meritocrazia diffusa.
Da questo punto di vista il governo Monti può essere uno spartiacque per la politica, ed è forse la sua ultima prova di appello.
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