a cura di Matteo Chiavarone

“Tunisi, taxi di sola andata” (NoReply, 2012) di Ilaria Guidantoni è un “docufilm” – definizione che ritroviamo sulla copertina del volume – ma soprattutto un “viaggio” all’interno della capitale tunisina, nella ricerca di osservare da vicino, e di comprendere, quei processi che hanno condotto alla Primavera araba. Un testo che racchiude impressioni dell’autrice, interviste ad esponenti culturali, politici e a “semplici” cittadini tunisini.

Ci fa piacere parlare con Ilaria Guidantoni e farci spiegare le “ragioni” del libro.

Buongiorno Ilaria, grazie dell’intervista. Iniziamo subito con due domande in un certo senso di metodo. La prima: cosa significa “docufilm”? Secondo te è la definizione più appropriata? Nella prefazione il regista Mourad Ben Cheikh ti fa una domanda che ti rigiro: perché sei qui? Cosa ti ha condotta a Tunisi o ad interessarsi a questa fase storica?

Docufilm è il risultato della narrazione di un reportage o, se preferisce, di un reportage narrativo, nel senso che il percorso della protagonista, Sophie, è un lavoro giornalistico che attraversa la sua vita personale con la quale si intreccia. Io lo definirei romanzo verità perché se la storia ‘personale’ è un’invenzione, un escamotage, i contenuti e gli incontri sono reali o ricostruiti fedelmente su documenti. L’intenzione non era però di scrivere un saggio ma di raccontare le emozioni che sconvolgono le vite quotidiane di persone comuni quando un fatto storico irrompe nella nostra esistenza. Alla seconda domanda rispondo come Ilaria e dico che è stato il caso, gli incontri a farmi conoscere Tunisi e il precipitare della dittatura – gli ultimi mesi sotto Ben Ali sono stati i più duri – a far maturare il mio affetto per questo popolo che ha avuto il coraggio di provare a cambiare il destino; nello stesso tempo mi sento di risarcire anche se come una goccia nell’oceano, la Tunisia dell’indifferenza italiana ed europea in genere, della trascuratezza dell’informazione e del pressapochismo di ogni interevento. La ragione prossima ed emotiva è stato il caso: trovarsi coinvolti per ragioni personali in una rivoluzione scuote e commuove. Credo che da un evento occasionale sia scaturito il senso di responsabilità, di inadeguatezza e di autocritica per aver guardato quel paese con gli occhi ingenui e superficiali di un’occidentale, innamorata della superficie. Come giornalista italiana mi sono sentita chiamata in causa. Forse non ho il coraggio di Sophie o non ho ancora fatto l’incontro giusto.

Tra le varie interviste (tra cui Rannouchî, Hafiène, MarzouQî) c’è qualcuna che ti ha dato maggiori spunti rispetto alle altre? Quale “voce” è più forte? Quella che viene dalla sfera “politica”, quella “intellettuale” o quella che viene “dal basso”? È troppo difficile scindere le tre componenti?

Nessuno degli incontri è stato ad una voce sola, ognuno mi ha restituito la complessità di un terremoto emotivo che attraversa tutti gli aspetti della vita e questo è vero anche per le conversazioni con le persone comuni, in primis i tassisti, coprotagonisti nel mio romanzo insieme alla giovane donna francese, alla ricerca delle ragioni della rivolta. I tassisti sono stati l’humus che ha sollecitato la nascita del libro, il registratore per cogliere il polso della situazione, soprattutto nel loro rapido mutare bandiera, alla ricerca di una guida e non solo per convenienza ma per immaturità politica. Mi è difficile scegliere un incontro ma posso citare il mio amico regista Mourad Ben Cheick forse proprio perché conoscente e testimone ad un tempo che si è specchiato nell’ingrandimento di uno sguardo occidentale su Tunisi (il mio) e a sua volta mi ha consentito di entrare dentro la società dalla porta dell’amicizia. Un altro incontro folgorante è quello con la blogger che, sotto una veste romanzesca, ritrae Lina Ben Mhenni, una protagonista dell’impegno sociale e civile in rete, in prima linea con le cicatrici del dolore che ha colpito la sua famiglia dissidente e, allo stesso tempo, con la leggerezza di una donna giovane ed emancipata, caparbia e con molta voglia di vivere.

Sono davvero così legate le vicende che hanno toccato i vai paesi del Nord Africa? Ti sei fatta un’idea della questione libica?

Sono legate quanto diverse. Non conosco la Libia che ho vissuto solo di riflesso per l’immigrazione massiccia che questo agosto ho visto in Tunisia, che ha portato persone molto benestanti e chiuse nel loro cerchio, difficile da penetrare. Ho conosciuto dunque situazioni e storie marginali, come i rifornimenti enormi di acqua minerale da trasportare e rivendere in Libia, che hanno costretto i supermercati a mettere un limite all’acquisto individuale di bottiglie. Questo e altri episodi curiosi sono ben poco per dare un giudizio. Posso dire però che la Tunisia è un popolo unico (anche e forse soprattutto per merito di Bourghiba) ed unito e questo si è visto nella forza di ribellione; un paese piccolo e concentrato demograficamente al nord, quindi relativamente facile da gestire; molto proiettato sullo scenario europeo, multiculturale con una grande capacità di convivenza a livello di componenti culturali, politiche, linguistiche e religiose. La situazione del Marocco e dell’Algeria sono molto più complesse. Sia in Algeria che in Libia ad esempio la popolazione è divisa in tribù. Inoltre in Algeria in particolare c’è un astio storico verso la Francia e in qualche modo verso l’Europa; in Marocco una rivalità; del tutto assenti invece in Tunisia. In generale, anche questa è una semplificazione, parlerei di primavere arabe come stagioni di risveglio ma con caratteristiche individuali ben distinte.

“In Tunisia erano in pochi a dire no. Quei pochi sono bastati”. Ne sei davvero così sicura? Ha influito in maniera determinante la “rete” come ci hanno raccontato?

Erano pochi i coraggiosi, i ‘bravos’ citati da Mohamed Kilani, i dissidenti ed era un lusso riservato solo agli intellettuali, come si racconta nel libro; a coloro ai quali almeno le torture venivano risparmiate perché sotto il grande occhio dell’Europa che avrebbe condannato. Ci sono stati i politici autentici e gli avvocati di parte civile, i magistrati emarginati ma sono stati in pochi. La rete è stata il vero collettore della protesta perché ha consentito, almeno in una prima fase, di restare nell’ombra, anonimi e pertanto protetti. In un secondo tempo ha permesso con grande rapidità di essere uniti, comunicare in un mondo disabituato alla libertà di parola e soprattutto ha reso sicuri i giovani più disponibili a scendere in piazza. Erano pochi i no sia per l’indole del popolo che non è mai stato padrone e decisore in casa propria, dai tempi di Cartagine, sia perché – ed è una conseguenza della prima caratteristica – coloro che non hanno rinunciato all’impegno sono emigrati, basti pensare a Mouncef Marzouki appunto o agli esponenti di Ennahda. La rete ha avuto un’altra capacità, quella di attrarre il popolo europeo critico, quello intellettuale più attento e di unire simultaneamente in breve il mondo arabo facendo sentire forti coloro che fino a poco prima si sentivano pochi e deboli (così erano considerati i tunisini, ‘i molli del mondo arabo’). Un episodio che pochi conoscono: mentre serpeggiava la voglia di rivolta e il governo cominciava a sospettare qualcosa, per dribblare la censura sono stati chiamati in soccorso gli hacker internazionali che hanno attaccato contemporaneamente i sistemi informatici della banca centrale e del governo, impegnando la polizia postale e distraendola dall’impennata rivoluzionaria che ha dilagato. I russi sono stati tra gli attaccanti più valorosi.

Nell’ampia parte narrativa del libro si parla molto di cultura. È “qui”, in questa sorta di “rinascimento”, la vera primavera tunisina? Cosa significa in un paese come la Tunisia quasi un quarto di secolo di dittatura?

Forse è presto per parlare di rinascimento o anche solo di rinascita: certamente ho assistito in pochi mesi ad un risveglio senza precedenti. E’ incredibile – la mia protagonista non smette di stupirsene – come dopo una generazione di silezio-assenso le menti siano rimaste lucide. La voglia di scrivere, parlare, declamare è esplosa in una festa collettiva e irrefrenabile. Le librerie si sono riempite di libri e presentazioni. Oggi, ad oltre un anno dalla rivoluzione, gli eventi che hanno sconvolto la Tunisia sono ancora in primo piano, soli protagonisti di tutte le arti. Il cinema e la letteratura sono stati primi a muoversi; ma anche le arti figurative stanno dedicando alla rivoluzione tutte le loro energie. La società si è aperta verso nuove forme culturali quali, il fumetto satirico d’autore, del tutto nuovo – che sta contagiando il mondo arabo e in generale l’Africa – e il rap nella musica. Ancora si è in una fase embrionale nella quale prevale la voglia di comunicare, il pensiero non si è così organizzato. Non è detto che nascerà una stagione di qualità, anche se certamente sarà un tempo vivace, di scambio di idee ed energie. C’è bisogno di sperimentare ma poi di sedimentare e far divenire la rivoluzione un’esperienza metabolizzata che filtra nelle opere d’arte come un sottofondo, come uno stile nuovo, non necessariamente un argomento. In ogni caso da 8 stazioni radio, a fine agosto si è passati a 30 e le domande di apertura di nuove emittenti erano già 50.

A riflettori spenti com’è la situazione oggi? Come si sta svolgendo la “ripresa” e la “ricostruzione”? L’Occidente sta solo a guardare o sembra interessato alla questione?

La ripresa economica stenta a venire, anzi la situazione è peggiorata in termini reali, forse non di prospettiva. Dopo l’entusiasmo e le proteste si sta passando alla riorganizzazione del mercato del lavoro che comporta la sindacalizzazione con tutto quello che ne consegue: scioperi, rivendicazioni, battaglie. Il prezzo della democrazia. Inoltre c’è la necessità di riorientare l’economia che è stata sbilanciata sul turismo, unica vera risorsa naturale e su una certa finanziarizzazione gestita dalla famiglia presidenziale che controllava anche quasi tutto l’import-export. Il mondo della cultura e dei mezzi di comunicazione, ad esempio potrebbe essere un capitolo nuovo dell’economia tunisina. Qualcuno, come certe voci del mio libro, parlano di un recupero dell’agricoltura e dell’artigianato di qualità, ma siamo ancora in fase progettuale di elaborazione di modelli. A livello politico poi, fino a novembre ci sarà il governo provvisorio, un vero ‘compromesso storico’ tra la grande componente laica repubblicana e quella religiosa moderata, in ogni caso la ricerca di un’identità indipendente che cerchi armonia tra le varie istanze del Paese. L’Occidente europeo è più preoccupato che interessato perché gli assetti messi in campo da una dittatura sono in certo senso rassicuranti e protezionisti. L’Italia e la Francia ad esempio erano favorite sotto il profilo economico in cambio del mantenimento dello status quo politico. Ora, è vero che la Tunisia ha bisogno di sostegno economico, ma dialoga alla pari come un paese libero. Se per Occidente si intendono gli Stati Uniti, questi sono almeno apparentemente lontani dalla Tunisia che mantiene una posizione relativamente neutrale. Il nucleo, ancora nebuloso, è da che parte stiano realmente rispetto alla vera incognita che pesa sulla Tunisia: il mondo arabo orientale: Arabia Saudita da una parte; Qatar dall’altra. Sotto la veste dell’islamismo c’è la politica economica del petrolio. Qual è il ruolo che giocheranno gli Stati Uniti rispetto alle mire espansionistiche del Medioriente sulla Tunisia? Cosa converrà loro sostenere? E ancora staranno con l’Arabia o con il Qatar?

Dici che adesso è “il tempo dei gelsomini”. Cosa significa? C’è una cosa, un qualcosa, della città o delle persone del posto che si porta sempre appresso?

La frase è una mia rielaborazione del “Qoelet” (L’ecclesiaste), uno dei libri sapienziali della bibbia. Il tempo dei gelsomini è il tempo della storia, della concretezza, quindi della scelta come strumento per far vivere i sogni. E’ il tempo del coraggio che risuona come un allarme per l’Occidente addormentato che la mia protagonista finirà per lasciare, quel nord del Mediterraneo stantio. Il gelsomino è il fiore simbolo della Tunisia e in particolare di Sidi Bou Said, borgo di artisti a nord di Tunisi. E’ un simbolo di ribellione ma nel segno della non violenza che invita a protestare per costruire un’alternativa. Di Tunisi mi porto dentro sempre la luce calda del tramonto, l’immagine del golfo da una terrazza de La Marsa, il suono delle campane che si fonde con il richiamo del muezzin alla preghiera, il profumo dei fiori nelle stanze, il rumore del traffico e soprattutto le voci, tutte perché sono stati gli incontri, soprattutto quelli occasionali, a disegnare la mia mappa.

Vuoi aggiungere qualcosa per “raccontarci” il tuo libro?

Il libro è un viaggio lungo una settimana di agosto, nel periodo del Ramadan, con un finale dopo le elezioni del 23 ottobre che scorre su un doppio binario, quello degli incontri, delle ragioni, della ricerca della verità che la protagonista rincorre caparbiamente per decifrare la situazione tunisina; e quello della propria ricerca e trasformazione interiore. Da turista e cronista gli eventi la porteranno ad essere una viaggiatrice. Forse è questo che soprattutto tengo a comunicare, l’importanza dell’ascolto delle voci di tutti, con il coraggio di perdersi in questo affresco corale, con umiltà e curiosità, senza paura. E’ questo il messaggio più forte della rivoluzione tunisina dal quale comunque andranno le cose non si tornerà mai indietro perché questa è la forza della storia. E in fondo è già nell’incipit del libro: “Ormai è tardi per voltarmi indietro. Comunque andrà, sarà un viaggio senza ritorno”.

Come sta reagendo l’opinione pubblica all’uscita del libro? C’è interesse intorno a te? Come sono andate le prime presentazioni? Nei prossimi mesi dove lo “porterai”? Perché non fare qualcosa all’interno delle scuole?

Mi sembra che l’interesse ci sia proprio per questo stare sul confine tra la narrazione e il reportage che coglie fasce diverse di lettori e le critiche sono state attente, puntuali, non distratte come accade spesso. L’esordio è stato nella Capitale con un viaggio a tappe dalle istituzioni, alla Camera dei Deputati, alla libreria Griot specializzata nella letteratura africana o di soggetto africano, quindi a N’Importe Quoi dove tornerò per raccontare il libro attraverso la musica; sarò anche a Fahrenheit, alla libreria L’Argonauta presto; e ancora Milano, Parma, Lecce, Pietrasanta e a Cassino al Festival delle storie a fine agosto. Lo riporterò dov’è nato, a Tunisi, dove sarà all’Istituto Italiano di Cultura, unica biblioteca italiana del paese. Ogni volta è uno spettacolo nuovo, una prospettiva nuova che disegna il mosaico di un libro non scritto, collettivo. Nel mondo delle scuole mi piacerebbe molto. Vorrei provare a raccontare uno scampolo di storia invertendo l’ordine, cambiando il punto di vista, disegnando il Mediterraneo a partire dalla sponda sud.

La ringrazio per il tempo offertoci e soprattutto buon “lavoro”.

Lascia un commento

Your email address will not be published. Required fields are marked (required)