di Alessandro Campi

La politica segue percorsi carsici e sovente misteriosi. Dare per spacciata la Lega potrebbe dunque rivelarsi un errore. La crisi attuale del partito di Bossi, se ben gestita dalla futura dirigenza e se la pulizia nei suoi ranghi sarà reale, potrebbe addirittura trasformarsi in un’occasione di rilancio.

Ciò non toglie che la catastrofe politica e d’immagine della Lega – una vicenda da commedia all’italiana, un intreccio che appare più grottesco che tragico – abbia delle specificità sulle quali vale la pena di interrogarsi.

Nessuno poteva immaginare, qualche mese fa, che gli incorruttibili per definizione, i nemici più risoluti del lassismo italico-romano, potessero diventare i protagonisti di una storiaccia da rotocalco fatta di spese pazze, di odî mortali e di donne come sempre fatali. Cosa non si è sentito in questi giorni? Diamanti, lingotti d’oro, auto di lusso, investimenti in Tanzania, affitti e cene, amanti, lifting facciali, mansarde al mare, insane passione per la magia.

Si dice – quasi a giustificare i malcapitati – che la melma politica romana, tante volte maledetta e denunciata dai padanisti come il cancro spirituale della nazione, abbia finito per fagocitarli. Bossi e i suoi uomini sarebbero stati corrotti, loro malgrado, dal male che hanno cercato di combattere. Ovvero si sarebbero adagiati, dopo vent’anni di battaglie generose ma al dunque inutili, ad un cattivo costume – fatto di mollezze private, privilegi intollerabili, ruberie ai danni del prossimo, nepotismo – evidentemente troppo radicato nel tessuto storico italiano per essere rimosso o estirpato dalla buona volontà di un manipolo di audaci.

Il che, se vero, confermerebbe che i leghisti avevano ragione a considerare il Palazzo romano come una sirena ammaliatrice, che fa perdere il senno e il decoro a chi accetta, anche solo per un momento, le sue lusinghe mortali.

La verità però potrebbe essere un’altra, più duramente prosaica. E cioè che i leghisti, già in passato, avevano dato segni di cedimento morale che semplicemente non sono stati colti per tempo, avendo tutti preso per buono il mito, costruito ad arte dai diretti interessati, della loro diversità addirittura antropologica e della loro moralità cristallina. Sarebbero bastate in effetti le loro scorribande finanziarie – ad esempio il fallimento della CrediEuronord, quella che fu definita la “banca della Lega” – per capire di quanta spregiudicata leggerezza fossero capaci a loro volta. Senza voler ricordare, andando indietro nel tempo, addirittura all’epoca di Mani Pulite, le tangenti che Lega incassava dalla Montedison negli stessi frangenti in cui esibiva i cappi in Parlamento contro i ladri di regime.

Non si dovrebbe poi trascurare un altro aspetto, sul quale spesso s’è equivocato o indugiato in modo troppo benevolo e che anch’esso può servire a spiegare quanto accaduto. Accredita, sul territorio, come una forza di buon governo – mossa dal pragmatismo e dallo spirito di servizio verso gli amministrati – la Lega ha in realtà sempre manifestato una tendenza bulimica verso il potere, ancorché locale: ha lottizzato e occupato incarichi, sistemato ovunque i suoi uomini secondo il criterio della fedeltà al partito, messo le mani su banche e municipalizzate, utilizzato in modo discrezionale le risorse pubbliche. Avversaria ideologica della partitocrazia, ne ha sempre applicato i metodi e gli strumenti con perseveranza scientifica. Che oggi debba scontare gli effetti perversi che sempre derivano da una gestione proprietaria e tracotante della cosa pubblica non deve dunque sorprendere.

C’è infine da considerare un tratto tipico sin dalle origini della psicologia leghista, che anch’esso ha probabilmente influito sullo sfascio odierno del partito. Rispetto ai politici di professione, denunciati come intriganti e mestieranti, i leghisti si sono sempre accreditati come “barbari” e parvenu: irrispettosi delle regole, trasgressori delle prassi consolidate, animati dal desiderio di cambiare tutto con qualunque mezzo. Si sono compiaciuti della loro vitale rozzezza, del loro parlare schietto, del loro andare al sodo.

Ma al dunque – a furia di trasgressioni all’etichetta e di proclami insensati – hanno solo dimostrato che il loro primitivismo politico (oltre a nascondere dietro una mare di demagogia, come si è visto, istinti e pulsioni inconfessabili e spesso assai dozzinali) è inadatto al governo di una società complessa, è estraneo al senso di responsabilità necessario a chi regge delicati incarichi istituzionali. Abituata ad urlare al prossimo, la Lega cosiddetta di governo, a partire dai suoi uomini di punta, semplicemente non si è dimostrata all’altezza del suo ruolo e delle sue ambizioni. Ottenuto il massimo del potere, l’ha utilizzato per darsi alla bella vita, dimostrando così poca avvedutezza politica e un modesto senso dell’etica.

Il risultato l’abbiamo visto. E sarà dura per Maroni – o chi per lui – tentare di uscire da questa situazione tornando alla purezza originaria delle origini, dal momento che quest’ultima probabilmente non è mai esistita. Dovrà semmai nascere una nuova Lega, disposta a lasciarsi alle spalle gran parte del suo non propriamente esaltante passato.

 

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