di Stefano Pelaggi*

La manovra per la espropriazione del 51 per cento della compagnia petrolifera YPF sta seguendo un corso molto veloce e sarà probabilmente discussa alla Camera all’inizio di Maggio. La mossa di Buenos Aires è l’ultima e la più eclatante misura di una politica volta a ridurre le importazioni e ad incentivare il commercio interno tramite una serie di dazi e leggi restrittive. Azioni che avevano già causato molte proteste tra gli industriali argentini; oltre quelle ovvie degli altri paesi, sudamericani in particolare.

Le accusa rivolte alla Repsol sono quelle di usare la YPF dimenticando gli interessi nazionali argentini; nelle parole di Axel Kicillof, giovane viceministro dell’economia “gli obiettivi della compagnia devono coincidere con quelli nazionali; la soluzione è la statalizzazione”. Kicillof è uno dei consiglieri più ascoltati dalla Kirchner; quarantenne economista e studioso di Marx è il vero ispiratore della nazionalizzazione della YPF.

Le reazioni dell’opinione pubblica argentina sono concordi nel criticare l’esproprio della compagnia petrolifera. I principali giornali, con l’eccezione di Pagina 12, hanno stigmatizzato la decisione della Kirchner, evocando lo spettro di una crisi con la Spagna e un inevitabile calo nella fiducia dei partner europei. Le analisi de La Nacion mettono sotto accusa le politiche energetiche dello scorso decennio sottolineando in particolare la mancanza di una programmazione seria per il futuro.

Le responsabilità del totale controllo spagnolo della maggiore impresa petrolifera argentina partono da molto lontano. Dal 1978 al 1982 fu avviato dalla giunta militare un piano di ingresso di capitali stranieri avviando così una tendenza che nessuno dei successivi governi riuscì ad invertire. Fino al 1992 quando l’allora presidente Menem permise un ingresso sempre maggiore ai gruppi stranieri che culminò con l’acquisto del pacchetto di maggioranza da parte della Repsol nel 1999. Molti opinionisti, in Sudamerica e in Europa ,hanno ricordato l’importante ruolo rivestito dall’attuale presidente argentino, allora senatrice, e del defunto presidente Kirchner nella trattativa per la privatizzazione della YPF. Gli atteggiamenti dei Kirchner nei confronti delle compagnie petrolifere straniere sono sempre stati improntati su una collaborazione proficua. La svolta argentina non può essere stata generata dalla notizia di trattative tra Repsol e la compagnia petrolifera cinese Sinopec, ma piuttosto dalla necessità di cercare un consenso interno.

La nazionalizzazione della YPF sembra l’ennesimo tentativo dell’esecutivo per sviare l’attenzione dai seri problemi che stanno attanagliando il paese; dalle accuse di corruzione alla presunta manipolazione sui dati dell’inflazione sino ad un costo della vita che ha raggiunto livelli inaccettabili per la classe media. Il quadro interno presente molte criticità: la situazione economica non sembra essere adeguata a supportare l’ambizioso piano di servizi sociali varato dal governo, il disastroso stato delle ferrovie nazionali è salito recentemente alla ribalta con un gravissimo incidente e l’ipotesi di un congelamento degli stipendi ha fatto infuriare anche i sindacati più fedeli.

La strategia comunicativa del governo ha lasciato perplessi molti osservatori: prima il clamore mediatico creato attorno ad un presunto tumore, quando gli stessi medici hanno ammesso che sin dall’inizio si conosceva la natura dell’intervento riconducibile ad una semplice cisti; poi una serie di dichiarazioni sulla questione delle Falkland/Malvinas che, ben lungi dall’affrontare il tema, hanno semplicemente esacerbato gli animi dei contendenti e riaperto un conflitto politico senza prospettive concrete. La vera partita, se la nazionalizzazione di YPF verrà portata a termine, sarà costituita dalla trattativa sulla cifra del rimborso da pattuire. Nel vertice colombiano i paesi latino americani hanno, intanto, dovuto affrontare temi come la sovranità delle Falkland e la legittimità della nazionalizzazione della YPF. Il neopopulismo argentino, costituito dalla solita miscela di revanscismo nazionale e rivendicazioni sociali, ha portato indietro di qualche decennio gli equilibri della geopolitica del continente.

*Dottorando in Storia d’Europa presso la Sapienza Università e redattore de L’Italiano e di Geopolitica.info.

 

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