di Roberto Valle
Nel libro-intervista I prossimi titani (1997) l’ormai centenario Ernst Jünger esortava a leggere I miserabili (1862) di Victor Hugo, perché in questo romanzo ottocentesco si trovano “molti pensieri moderni, attuali”.
Il 150° anniversario della pubblicazione de I miserabili coincide con le elezioni presidenziali in Francia e Victor Hugo è l’ideologo principe della campagna elettorale citato da tutti i candidati. Il vuoto di idee sembra avvolgere anche Sarkozy, che non incede più con quella sua camminata strana e con quel peculiare “movimento rotatorio-ondulatorio”, quale espressione dell’afflato rigeneratore della rupture. Sarkozy sembra avere destituito Henri Guaino dal ruolo di consigliere speciale, affermando che il “programma dell’avvenire” è stato dettato attraverso i secoli dalla “grande voce di Victor Hugo”.
La grande voce di Hugo risuona anche nei programmi delle due sinistre: il socialista Hollande ha fatto riferimento al discorso sulle caves di Lille del 1851 per affermare che la lotta contro la povertà e l’ingiustizia continua; in un comizio il leader della sinistra radicale Mélenchon ha citato un passo dei Miserabili nel quale si esaltano le virtù del giacobini come “selvaggi della civiltà” in lotta per l’emancipazione culturale ed economica del popolo.
La crisi economica europea ha resuscitato come un revenant la miseria che in Francia è tornata al centro del dibattito politico: per Hugo, la miseria è sia la “lunga agonia del povero”, sia “l’implacabile nemico della legge”. Tuttavia l’Europa miserabile non è un artefatto della dittatura della tecnocrazia che ha assoggettato il continente all’euro, considerato una sorta di “reliquia barbara”, ma della miseria simbolica scaturita da quella civiltà dei selvaggi che ha celebrato i propri trionfi tra la fin de siécle e l’inizio del XXI secolo attraverso la speculazione d’azzardo e la trasfigurazione populista dell’intero spettro delle forze politiche europee.
La caduta inesorabile del populismo, con la sua miseria simbolica e culturale, è stata colta da “Le Monde” in un articolo del 13 aprile dedicato alla Bossi family e alle vicende di bassa lega nord intitolato Brutti, sporchi e cattivi. Questa catastrofe estetico-politica era stata già vaticinata da Hugo: nei Miserabili, infatti, compare un idealtipo sociale (rappresentato dalla famiglia Thénardier) carico di futuro. Hugo definisce i Thénardier “classe bastarda”, quale espressione compiuta della decadenza intellettuale e mentale di una nazione. Secondo Hugo, tale classe era votata al perfezionamento della propria miseria etico-estetica: da tale perfezionamento è scaturita l’attuale plebe neomiserabile che ha provocato la simultanea dissoluzione della società civile e delle classi dirigenti.
Bernard Stiegler (filosofo e discepolo di Derrida) in De la misère symbolique ha ingaggiato una “guerra estetica” contro l’egemonia della teologia del marketing che ha inverato la profezia di Hugo. Il libro nasce da una conferenza tenuta da Stiegler nell’ottobre del 2003, che prendeva spunto da un fatto di cronaca avvenuto nel marzo 2002: l’ecatombe provocata da un perdente anonimo, Richard Durn, che ha assassinato otto membri del consiglio comunale di Nanterre e poi si è suicidato. I nuovi miserabili non sono degli “abominevoli barbari”, ma, secondo Stiegler, le rovine del consumismo e il cuore stesso della civiltà iperindustriale, che è un enorme ghetto (o zona commerciale) della miseria simbolica e del “disgusto generalizzato”. Come categoria dello spirito, la miseria simbolica è il prodotto di quella funzionalizzazione dell’esistenza del consumatore miserabile, che distrugge la personalità e la singolarità dell’individuo, privandolo sia del “narcisismo primordiale”, sia della sensibilità estetica. Il neomiserabile, infatti, è l’emblema di una catastrofe antropologica scaturita da quella scissione tra politica ed estetica che ha provocato l’eclisse della società come “comunità di sentire” e come “sensibilità dell’altro”. Negli anni del sovraffollato protagonismo di massa il demi-monde populista è stato la culla del neomiserabilismo che ha assunto la sembianza del soprofitismo marketing-dipendente. La “travolgente impudicizia” della stupidità (preconizzata da Musil) è l’unico background subculturale del neomiserabile, che è una sorta di selvaggio interno che vede l’altro a sua immagine e somiglianza e discrimina tutto ciò che è migliore. Questo ceto medio-basso dello “spirito e dell’anima”, secondo Musil, si abbandona del “tutto spudoratamente” al proprio “bisogno di presunzione”, fondato sulla distruzione della singolarità.
Gli anni Novanta hanno sancito il trionfo del neomiserabilismo. I neomiserabili si sono accovacciati nella bolla speculativa e nell’illusione del capitalismo popolare, concependo l’investimento in borsa come una lotteria nazionale. L’altra deriva del neomiserabilismo è il consumismo etico, che ha trasformato il volontariato in un attivismo inconsulto indirizzato a colonizzare con la miseria simbolica il mondo realmente indigente delle nuove povertà. Tra il consumismo etico e la politica concepita come uno spettacolo burlesque permanente per guitti multimediali, la lumpen-populace neomiserabile continua ad essere l’idolo della teologia del marketing e dell’antipolitica quale fase suprema della miseria simbolica.
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