di Andrea Beccaro
Il 15 aprile scorso in Afghanistan si è aperta in modo fragoroso la campagna di primavera dei Talebani; un “rito” che si ripete annualmente, ma che non per questo merita meno attenzione. Durante la suddetta operazione una trentina di guerriglieri ha condotto una serie di attacchi, più o meno coordinati, sia con armi automatiche (l’onnipresente Ak47), sia con lanciagranate e attentatori suicidi. Sono stati presi di mira palazzi in teoria super protetti come ad esempio: il Parlamento dove gli assalitori sono penetrati all’interno del perimetro da cui sono stati poi respinti dalle forze afghane; lo Star Hotel; le ambasciate russa e tedesca colpite rispettivamente da razzi e da un attentatore suicida. Non sono mancati nemmeno scontri con le forze occidentali visto che è stato preso di mira un convoglio di soldati francesi. Dopo 8 ore di combattimenti sembra che 19 guerriglieri siano stati uccisi, che le forze afghane abbiano perso 5 uomini e che quelle occidentali non abbiano registrato perdite.
Dal punto di vista tattico questa battaglia urbana presenta poche novità visto che già in passato gli insorgenti afghani avevano utilizzato attacchi coordinati con armi da fuoco e attentatori suicidi. La riflessione che si deve fare non è di carattere tecnico, ma è più ampia e riguarda l’ormai fatidica data del 2014 quando avverrà il ritiro completo delle truppe occidentali. Questo ennesimo episodio di violenza, avvenuto in un momento che storicamente ha sempre rappresentato il risveglio della stagione bellica e quindi almeno parzialmente prevedibile e per di più avvenuto all’interno della capitale del Paese ritenuta il luogo più sicuro di tutto l’Afghanistan, sottolinea come la pacificazione sia ben lontana dall’essere raggiunta.
Questo attacco dimostra a tutti (governo, popolazione locale, comunità internazionale) quanto poco controllo hanno sul proprio territorio le forze di sicurezza locali. Sintomo quest’ultimo di un’insorgenza ben radicata che malgrado gli sforzi occidentali riesce a muoversi e ad agire come e quando vuole, ovvero in termini più strategici possiede l’iniziativa. Il fatto poi che l’attacco sia stato respinto senza che, pare, i guerriglieri ottenessero risultati evidenti non significa affatto che sia stato un fallimento, anzi presumibilmente l’obiettivo principale di questo attacco, come di altri similari, non è vincere il singolo scontro tattico. La disparità di forze in campo in termini di potenza di fuoco, addestramento, coordinamento è troppo elevata perché si possa realisticamente pensare che i guerriglieri abbiano la meglio in questo genere di scontri, sopratutto se si prolungano nel tempo perdendo così l’iniziale effetto sorpresa. L’obiettivo, al contrario, è politico e mediatico, ovvero ottenere visibilità e dunque affermare con forza la propria esistenza verso tre “pubblici” diversi ma interconnessi. Ovvero verso i decisori politici, in particolare americani, alla luce delle trattative più o meno segrete che ormai da tempo si stanno portando avanti tra gruppi guerriglieri e l’amministrazione americana in vista del ritiro del 2014; verso le opinioni pubbliche internazionali in modo che facciano pressione sui rispettivi governi; verso il pubblico locale afghano al quale gli insorgenti fanno sapere che quando terminerà l’occupazione occidentale saranno loro ad avere il potere con ovvie ricadute immediate sulla legittimità e la capacità di controllo del governo locale.
Questa riflessione ci porta quindi al nocciolo della questione, ovvero la soluzione risiede nel discorso politico e ciò è ancor più vero quando si parla di insorgenze come quella afghana. Queste guerre sono lunghe e senza la volontà politica di arrivare fino alla fine la vittoria non può che arridere agli insorgenti che invece possiedono tale volontà, non fosse altro perché loro vivono lì, è il carattere tellurico di schmittiana memoria. Con una data per il ritiro già stabilita la conclusione non può che essere una sola. Semmai resta da definire il come: l’attacco a Kabul e il fatto che l’Afghanistan resta il maggior produttore di oppio del mondo non possono certo essere considerati degli indicatori positivi.
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