di Monica Amari
Declino. Questa è la parola che sempre più spesso viene utilizzata dai mass media e dalla gente comune per descrivere il momento che il nostro Paese sta vivendo. E, invece, per raccontare quanto sta succedendo bisognerebbe utilizzare il termine transizione. In qualunque ambito possa essere utilizzata – dalla fisica alla genetica, dalla chimica alla storia – la parola “transizione” indica non solo un generico significato di cambiamento, ma specifica che è in corso un “mutamento di stato”, un processo il cui risultato finale, determinando la modifica degli elementi strutturali di un sistema sia esso sociale, politico, economico, ne permette la creazione di uno nuovo.
Se queste premesse si riveleranno esatte potremmo accorgerci che una volta che avremmo finito di attraversare questo lungo, faticoso, sicuramente drammatico, momento di transizione, si sarà abbandonato il modello quantitativo di sviluppo, non più sostenibile da un punto di vista economico, ambientale e sociale e ci saremo orientati a favore di un modello qualitativo, basato sulla conoscenza, come ricorda anche la strategia di Europa 2020, il programma dell’Unione Europea per il prossimo decennio. Un modello che si rifarà anche alle intuizioni di Nicholas Georgescu-Roegen, padre dell’economia ecologica, secondo cui tutte le pratiche, anche quelle economiche si fondano sulla realtà delle leggi fisiche e dove determinante appare il “capitale naturale biotico” di cui, insieme ai beni e ai servizi prodotti dai processi naturali della Terra e di chi la abita, fa parte il “capitale simbolico”, la cultura dunque.
Ma perché ciò avvenga bisognerà passare attraverso il riconoscimento, nelle sedi istituzionali nazionali e soprattutto europee, del concetto di “sostenibilità culturale” la quale può essere definita come “la necessità per un sistema di conservare le condizioni ritenute necessarie allo sviluppo dei processi culturali” e, dunque, la possibilità per una comunità di creare un’attitudine alla conoscenza e allo sviluppo di competenze, le famose capabilities analizzate da Amartya Sen.
“Sostenibilità” è un termine coniato per indicare il dovere/diritto di una comunità a preservare le condizioni ambientali necessarie per generare processi di vita nel momento in cui ci si è resi conto che occorreva riflettere sul “modello di uno sviluppo in grado di soddisfare i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni” (Rapporto Bruntland 1987). Inizialmente utilizzato in ambito ambientale il concetto di sostenibilità e riuscito a mutuarsi in ambito sia economico che sociale. Oggi quando si parla di operare in un’ottica di “sostenibilità economica” significa che, per potere generare reddito e lavoro, devono persistere le condizioni di base affinché la vita economica si svolga in condizioni di libero mercato e in situazioni di trasparenza. Quando si parla di “sostenibilità sociale” a essere garantite devono essere le condizioni di benessere umano quali la sicurezza, la salute, l’istruzione.
Il “modello dei tre pilastri” è stato riconosciuto dall’Unione europea con il Trattato di Amsterdam nel 1997, come lo strumento politico in grado di indicare nuove strade e capace di coinvolgere ipotesi di sviluppo sostenibile a tutto tondo. Il non aver menzionato la “sostenibilità culturale” significa che i processi culturali, allora, non erano stati considerati “elementi strutturali” all’interno di un sistema economico-sociale, come peraltro testimoniano le politiche di allocazione delle risorse pubbliche, assolutamente asimmetriche nei confronti della ricerca e della cultura, settori falcidiati da continui tagli.
Molte cose cambierebbero se, al contrario, il concetto di “sostenibilità culturale” venisse considerato presupposto per creare “piattaforme di competitività” come suggerisce l’adattamento europeo al concetto di open innovation e come indica il programma 2020 dell’Unione europea che legge la dimensione della creatività come strumento di sviluppo. Processi culturali che devono essere considerati paritari rispetto ai processi economici, sociali e ambientali e che trovano la propria legittimità nel’essere espressione fattuale dei diritti culturali, spesso volutamente ignorati e poco considerati nel dibattito istituzionale, pur appartenendo alla “classe” dei diritti umani e trovando la propria fonte normativa nella “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo”.
A ricordarlo è la “Dichiarazione di Friburgo”, realizzata nel 2007 da un gruppo di esperti e destinata agli Stati, alle organizzazioni non governative e ai soggetti che operano nel settore privato. Composta da 12 articoli, la Dichiarazione raccoglie all’interno in un unico quadro interpretativo i diritti culturali dei quali offre per ciascuno una definizione e, nel rivolgere un’esortazione affinché vengano garantiti a tutti gli individui, indica le responsabilità di cui sono investiti gli attori sia pubblici che privati.
Da questa breve analisi sembra perciò che una strada per uscire da questa crisi, che si sta giocando tutta al “buio”, sia quella di ridare il giusto peso alla Cultura, per entrare finalmente in quella società della conoscenza, così agognata dal Trattato di Lisbona.
E affinché ciò avvenga si dovrà passare per l’Unione Europea attraverso un “Patto per la sostenibilità culturale”, che indicherebbe a tutti gli Stati membri una quota minima di finanziamenti, – potrebbe essere l’1% del Pil – da destinare alla Cultura e alla ricerca, come sintetizza la campagna di adesione “l’1 per tutti tutti per l’1”, promosso dal “Manifesto per la sostenibilità culturale” (www.sostenibilitaculturale.it).
Una campagna di adesione che coglie l’opportunità offerta dall’Unione Europea, con un bell’esempio di democrazia partecipata, la quale consente di proporre un’iniziativa legislativa alla Commissione se vengono raccolte, e ripartite, all’interno degli Stati membri un milione di firme.
Per concludere: se si riuscisse un domani a siglare un patto per la sostenibilità culturale, non sarebbe così paradossale la possibilità che, un giorno, quel ministro dell’economia o quel governo che taglierà i fondi alla cultura possa essere deferito alla Corte europea di Strasburgo per violazione dei diritti culturali. Quando potrà accadere? Per ipotizzare una risposta basta fare tesoro delle parole di Euripide: “L’atteso non si compie, all’inatteso un dio apre la via” e raccogliere, nel frattempo, le firme.
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