di Manlio Lilli
Quando alla fine del 1932, Raffaele Mattioli, un giovane direttore della Comit, persuase Giuseppe Toeplitz, amministratore delegato della banca milanese, a gettare la spugna e a convincere Mussolini della sua idea di un salvataggio complessivo della agonizzante economia italiana, si aprì un’era nuova. Un’era avviata da un piano inteso a trasformare la Comit in un istituto di credito pubblico che trasferisse allo Stato le sofferenze e i debiti da cui la banca era sommersa per un ammontare di cinque miliardi.
Da lì a qualche settimana nacque l’Iri. La Comit, il Credito italiano e il Banco di Roma, passarono sotto il controllo dell’Istituto, che si sarebbe occupato della sua gestione e delle operazioni di smobilizzo. Il “prima” e il “dopo” furono stagioni intense nelle quali le vicende politiche ed economiche s’intrecciarono quasi senza più distinguersi, insieme causa ed effetto. Contraddicendo proprio Mussolini, che nel gennaio 1937, in un colloquio con l’ex Presidente della Confindustria e della Commerciale, il senatore Ettore Conti, per dimostrare come fosse ben poco preoccupato delle gravi condizioni del bilancio pubblico, aveva detto che “mai una questione economica ha arrestato il cammino della Storia”.
Ricostruisce in maniera esemplare questa avventura italiana il primo volume della Storia dell’Iri. Dalle origini al dopoguerra (Laterza 2012, pp. 616, euro 35,00), una raccolta di saggi preceduti da una più che ragionata introduzione di Valerio Castronovo (una parte, “E l’Iri diventò fascista” pubblicata su Il Sole 24 Ore del 25 marzo). Quanto l’operazione Iri, nel suo svolgimento fino al 1939, quando se ne allontanò per motivi di salute, fu incardinata alla figura del suo presidente, Alberto Beneduce, lo si può constatare scorrendo le pagine del libro. Riconoscendovi il filo rosso che le unisce. Quello che si realizza attraverso le sue decisioni, il suo procedere, sicuro ed affidabile, nelle diverse questioni spinose che dovette affrontare. Mai fascista, fino al momento nel quale Mussolini decise di puntare su di lui, anzi ostile al Pnf, massone, di tendenza socialriformista, Beneduce fu un grande personaggio. Come dimostra anche la ricca bibliografia esistente (Franco Bonelli in Dizionario biografico degli italiani Treccani, Alberto Beneduce e i problemi dell’economia italiana del suo tempo, atti del convegno a cura di Pietro Armani) a partire dal ritratto storico delineato da Mimmo Franzelli, Marco Magnani, Beneduce. Il finanziere di Mussolini (Mondadori). Il seguace di Leonida Bissolati e collaboratore di Francesco Nitti, agli inizi degli anni Trenta, nonostante fosse tutt’altro che schierato, era stato chiamato a prestare la sua esperienza in campo finanziario in quasi tutti gli Istituti esistenti. Questa circostanza e le rassicurazioni sul suo conto fatte dal ministro delle Finanze Guido Jung persuasero il Duce a mettere nelle sue mani le redini del nascente Istituto per la ricostruzione industriale.
Da quel momento iniziò una storia differente. Largamente dominata dallo “scienziato dell’economia”, come lo definiva Mussolini. Gli anni delle preoccupazioni economiche ormai alle spalle. E con esse le misure deflazionistiche del 1930, come la decurtazione dei salari e un calmiere del prezzo dei beni di prima necessità. Come l’assegnazione, con decreto del 31 dicembre del 1930, all’Istituto di Liquidazioni del compito di intervenire per una prima sistemazione del Credito Italiano e per la copertura dell’intero ammontare dei debiti della banca Agricola Italiana. Oppure la creazione da parte del governo, nel novembre 1931, dell’Istituto mobiliare italiano (Imi), provvisto di un capitale di 500 milioni di lire, che sotto la guida di Teodoro Mayer, avrebbe dovuto concedere prestiti a medio termine a imprese e società di nazionalità italiana, emettendo proprie obbligazioni sul mercato per reperire i fondi necessari.
Beneduce, affiancato dall’agosto del 1933, da Donato Menichella, un gigante dell’economia del Novecento italiano, anch’egli senza la tessera del partito fascista, avviò l’operazione di salvataggio. Un’operazione dichiaratamente “non statalistica” come certificò sull’Economist, Luigi Einaudi, il più importante economista liberale del Novecento italiano. Osservando la questione con occhi moderni si può rinvenire, per così dire, un vizio di forma. Beneduce nonostante il nuovo ruolo era rimasto ai vertici sia nella Bastogi che nella Edison. Quella aporia, diremmo ora, quel conflitto d’interessi, in quel caso non fu nefasto per il Paese. Anzi. Perché se da un lato gli dava modo di agire da ago della bilancia nei delicati equilibri tra “pubblico” e “privato”, dall’altro consentiva a Mussolini di intervenire nella gestione dell’economia “senza darlo a vedere”, afferma Castronovo nella prefazione. Nel giro di poco più di un anno lo Stato, tramite l’Iri, divenne proprietario delle tre maggiori banche italiane, ma soprattutto si trovò a gestire imprese di ogni tipo da esse controllate o partecipate. A creare alcuni malumori ed un clima di pericolosa diffidenza nei confronti delle soluzioni adottate da Beneduce contribuirono gli ambienti industriali (con Giovanni Agnelli in testa). Preoccupati da quanto si andava prefigurando. A complicare questi rapporti (“incrinati” nel 1934 dal “caso Orazi”, approfondito nel volume nel saggio di Leandra d’Antone, “Da ente transitorio a ente permanente”) intervenne, nel giugno 1937, la trasformazione dell’Istituto da ente transitorio a ente permanente. Trasformazione sulla quale un ruolo significativo lo giocò il duce, convinto che “occorreva predisporre le condizioni economiche più adeguate per affrontare (…), nel modo migliore un conflitto, quello d’Etiopia, che avrebbe messo alla prova tanto l’ascendente del regime che la tempra degli italiani”. L’Italia divenne così seconda solo all’Unione Sovietica per il ruolo acquisito dallo Stato nella proprietà e nella gestione dell’economia. Gestione che si estese anche a settori nei quali l’industria privata non si avventurava (alla cui comprensione forniscono un importante ausilio i saggi di Adriana Castagnoli su elettricità e telecomunicazioni, e di Gian Luca Podestà su autarchia, colonie e riarmo).
Beneduce e Menichella si opposero con fermezza a chi proponeva privatizzazioni precipitose. Ma nonostante queste decisioni, tra il 1937 e il 1939, vi furono smobilizzi per un ammontare di 1.377 milioni contro gli 870 di investimenti netti. Le dimissioni, nel 1939, di Beneduce, non ne decretarono la fine. Al suo sostituto, Francesco Giordano, e soprattutto a Menichella, dopo la guerra, spettò il compito di traghettare l’Istituto nell’Italia postfascista. Negli anni che seguirono, nonostante le difficoltà (se ne occupa nel libro il saggio di Gianpiero Fumi), l’Iri riuscì a sopravvivere. In virtù, soprattutto, dell’apprezzamento di grandi personalità, da Einaudi, a Saraceno, da Merzagora, a Vanoni. Ma il fulgore che ne aveva contraddistinto i primi anni e poi l’età matura erano irrimediabilmente affievoliti. Al punto da sospettare che la stagione della democrazia gli fosse stata meno propizia di quanto, in precedenza, gli era stata quella del fascismo.
Lascia un commento