di Luigi Di Gregorio*

In attesa di analisi approfondite e strutturate, credo si possano già dire alcune cose relativamente alla due giorni elettorale del 6 e 7 maggio.

Il primo dato rilevante emerso ieri è senz’altro l’astensionismo pari a oltre il 33% degli aventi diritto al voto, con un incremento di circa 7 punti rispetto alle consultazioni precedenti. Questo risultato fa degli astensionisti di gran lunga il primo partito nazionale. Probabilmente non è una grande sorpresa, ce lo aspettavamo. Più interessanti forse sono due considerazioni. La prima è di Ilvo Diamanti che ieri ha affermato che probabilmente alle elezioni politiche l’astensionismo sarebbe ancor maggiore. Se così fosse sarebbe un caso a suo modo storico, dato che solitamente si registra una più alta astensione a livello locale. Tuttavia, mi sento di condividere l’analisi di Diamanti. In questa fase politica è più facile portare alle urne gli italiani che votano per il Sindaco piuttosto che per un Parlamento ampiamente delegittimato.

La seconda considerazione riguarda il Centro Italia, in particolar modo la cosiddetta “zona rossa”. È lì che l’astensionismo ha raggiunto quote record con un meno 11% in Emilia Romagna e un meno 10% in Toscana che fanno riflettere, perché sono regioni in cui mediamente il tasso di partecipazione elettorale è molto alto. A questo dato si somma quello del Movimento 5 stelle che vanta un consenso medio in Italia pari quasi all’8% e che proprio nella “zona rossa” ha i suoi picchi: circa 20% a Parma, 14% a Genova, 10% a La Spezia, Piacenza e Pistoia. Questi due dati a mio avviso hanno un sostrato comune. Le regioni del centro Italia sono state spesso considerate dalla letteratura socio-politologica come quelle più “civiche”, con un alto tasso di partecipazione alla vita pubblica, amministrazioni locali che funzionano, forte senso della “comunità”. Se proprio in quella zona crolla la partecipazione elettorale e cresce a dismisura il Movimento 5 stelle vuol dire che c’è un segnale particolarmente forte per il paese. Una specie di punto di non ritorno per la politica. E forse anche un’interpretazione distorta del movimento di Grillo, che ha sicuramente una componente di antipolitica nel suo leader (o megafono come amano definirlo i “grillini”), ma che probabilmente viene visto anche come un’alternativa di governo da una parte di italiani che non si fida più della classe politica che ha fatto (e disfatto) la seconda repubblica.

A tale proposito, merita un discorso a parte il Pdl. Nei capoluoghi di provincia in cui si è votato domenica e lunedì il partito esce letteralmente dimezzato: aveva in media il 28,6% dei voti alle elezioni precedenti, oggi ha il 14,3%. Il Pd tiene molto meglio passando dal 18,2% al 16,6%. È vero che queste elezioni hanno visto un fiorire liste civiche che in parte drenano voti ai partiti maggiori. Ma ciò vale per entrambi i partiti, non può valere solo per il Pdl. Per cui la débâcle c’è stata. Inoltre, anche il boom delle liste civiche è il segnale chiaro di un tentativo da parte dei candidati sindaci di distinguersi e svincolarsi dal proprio partito nazionale, evidentemente in calo di consensi e di legittimazione popolare.

In ogni caso, Pdl e Pd sommati raggiungevano circa il 45% dei consensi nelle elezioni precedenti e oggi a stento arrivano al 30%. Che il bipartitismo fosse finito ce ne eravamo accorti, ma oggi forse ci risvegliamo in una situazione più frammentata di quello che potevamo attenderci, visto che in media 7 italiani su 10 non hanno votato né per il Pdl né per il Pd.

Quali conseguenze avrà questo voto sullo scenario nazionale? A mio avviso nessuna di rilievo sul governo Monti. In questo momento non conviene a nessuno andare al voto. Certo però ci si aspetta qualcosa sia dal Pdl sia dal Pd in termini di proposta politica e di ricerca di una leadership convincente e trainante. Entrambi cercheranno inevitabilmente di intercettare quel malcontento dilagante nel paese e questo probabilmente produrrà delle correzioni di rotta nelle scelte del governo e qualche tensione. Il “rigore” dovrà necessariamente essere accompagnato da una boccata di ossigeno per le imprese e per i lavoratori (che sono anche gli elettori). Inoltre è lecito attendersi novità sul fronte delle riforme e del finanziamento pubblico ai partiti. A questo punto sarebbe fatale continuare a far finta di niente.

Ultima riflessione sulla riforma elettorale. Lo scenario emerso ieri credo che faccia saltare i piani di ABC sul modello tedesco-spagnolo che avevano in mente. Non darebbe alcuna garanzia di governabilità visti i dati emersi da queste elezioni. Anche in questo caso, la scelta diventa cruciale: preferiamo fotografare la frammentazione con un sistema proporzionale (col rischio Grecia) o provare a ridurre lo scenario partitico con una riforma drastica, tipo col doppio turno (alla francese)? Personalmente sono per questa seconda opzione da sempre, ma per farlo occorre un paese solido, maturo, coeso e una classe politica legittimata, responsabile e, in un certo senso, “modello”. In caso contrario, nessuno accetterebbe le distorsioni di un sistema maggioritario che lascerebbe fuori dal Parlamento diversi partiti. E continuare a farsi la “guerra” non fa bene a nessuno. Siamo a un bivio molto delicato. Aspettiamo che qualcuno indichi la strada, e comincia a essere tardi…

* Docente di Scienza politica e di Analisi delle Politiche pubbliche nell’Università di Viterbo “La Tuscia”.

 

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