di Michele Marchi

La Francia volta pagina. A diciassette anni dalla crepuscolare fine del regno mitterrandiano, un socialista torna a guidare il Paese. A dieci anni dalla clamorosa debacle di Jospin al primo turno delle presidenziali che videro Jean-Marie Le Pen accedere al ballottaggio, Hollande è il secondo presidente socialista della storia della Quinta Repubblica.

Basterebbero questi due dati per parlare di momento storico, se si pensa che in 54 anni di vita del regime creato da de Gaulle, i socialisti hanno guidato il Paese dall’Eliseo solo nei quattordici di Mitterrand (peraltro con due coabitazioni nel 1986-88, con Chirac Primo ministro, e nel 1993-95 con Balladur Primo ministro) e hanno controllato Matignon per altri cinque nella fase 1997-2002, ma in una lunga e contrastata coabitazione con Chirac all’Eliseo.

Il momento è altresì storico se lo si osserva dal punto di vista della sconfitta di Sarkozy. Solo Giscard d’Estaing, proprio nel 1981 contro Mitterrand, non era riuscito ad ottenere un secondo mandato. E proprio questo doppio rigetto ha contribuito ad accentuare, insieme ai tentativi di Hollande di riproporre l’immagine del padre nobile del socialismo francese, i richiami alla similitudine tra il maggio 1981 e quello odierno. E’ sempre rischioso costruire parallelismi storici in particolare se si considera l’evoluzione politica globale dell’ultimo trentennio. Nel 1981 la vittoria di Mitterrand portava con sé l’ingombrante fardello del PCF, in realtà ben presto depotenziato dallo stesso inquilino dell’Eliseo, ma soprattutto il tentativo del leader socialista di costruire una solida alternativa all’evoluzione neoliberale di matrice anglosassone. Insomma nell’aria echeggiava il changer la vie. Allo stesso modo se il liberalismo di Giscard può in qualche punto essere assimilato al volontarismo riformatore di Sarkozy, non foss’altro per il loro carattere per certi aspetti tangenziali alla tradizione politico-culturale del Paese, il parallelismo storico non deve essere portato oltre il limite. Il tentativo di stravolgimento dei principali canoni del semipresidenzialismo francese attuato da Sarkozy è assimilabile solo in parte alla gestione del potere di Giscard nel corso del suo settennato.

Prima però di interrogare la storia bisogna non perdere di vista la contingenza e riflettere su tre dati che sono nell’ordine i perché della sconfitta di Sarkozy, quelli della vittoria di Hollande e infine l’impatto del Fronte Nazionale.

Rispetto al primo punto Sarkozy ha pagato la pessima gestione del primo anno di presidenza, quello per intendersi della serata post-elettorale da Fouquet’s, delle vacanze sullo yacht di Bolloré, del rapporto disinvolto con il denaro, ma anche delle foto con la nuova compagna (poi moglie) Carla Bruni, insomma la cosiddetta presidenza bling bling. Le numerose riforme avviate e portate a termine, una gestione tempestiva della crisi finanziaria dell’autunno 2008, così come i successi internazionali nella crisi georgiana e in quella più recente in Libia, non sono riusciti a compensare la vera e propria “desacralizzazione” del ruolo del monarca repubblicano, simbolicamente culminata nel tentativo di favorire il figlio per la guida dell’ente di gestione del quartiere finanziario della Défense. A questo dato si sono poi aggiunte le difficoltà nel gestire la crisi quando da finanziaria si è tramutata in crisi economica dell’area euro. Infine come poteva il presidente del potere d’acquisto e della fine delle trentacinque ore difendere il suo bilancio con la disoccupazione in costante aumento e il Paese che si vedeva revocare la tripla A da una delle tre principali agenzie di rating?

Deciso a dichiararsi candidato all’ultimo momento (in linea con Giscard nell’81), Sarkozy ha dovuto rivedere la sua strategia in particolare dopo il riuscito ingresso in campagna elettorale di Hollande a Le Bourget, il 22 gennaio 2012. A questo punto Sarkozy ha avviato una campagna elettorale di grande impatto mediatico, utilizzando la stessa equipe di fidati consiglieri del 2006-2007 e cercando di proporsi su un doppio binario. Da un lato il “comandante in capo” in grado di affrontare la tempesta dell’area euro; dall’altro offrendo l’immagine del candidato “outsider” e contro le élite che non comprendono il desiderio dei francesi di essere protetti, dall’immigrazione almeno quanto dalla de-industrializzazione. Dopo una prima risalita nei sondaggi, la battuta di arresto è giunta al primo turno. Quel punto percentuale che lo ha collocato dietro lo sfidante Hollande è parso il preludio della sconfitta finale.

I perché della sconfitta di Sarkozy trovano una composizione speculare in quelli della vittoria di Hollande. Sono stati in particolare due gli atout della sua campagna. Da un lato si è impegnato nello sfruttare sino in fondo l’idea di catalizzare un voto innanzitutto “contro” Sarkozy e i suoi cinque anni di presidenza. Da questo punto di vista la sua scelta di proporsi come “candidato normale” è stata vincente, anche perché ha svolto la doppia funzione di creare un vero e proprio contraltare agli “eccessi” del presidente in carica almeno quanto a quelli del candidato socialista “potenziale”, Dominique Strauss-Kahn. Così Hollande da candidato di riserva ha iniziato una marcia trionfale, che aveva già ottenuto un primo passaggio decisivo nella vittoria alle primarie di ottobre 2011 (colpevolmente sottovalutate da Sarkozy), proponendo un’alternativa senza traumi, un cambiamento innanzitutto di stile e di moralizzazione politica. Infine questo approccio si è facilmente inserito nella tendenza tipica delle fasi di crisi, di punire i dirigenti politici al potere, come peraltro avvenuto di recente in Irlanda, Portogallo e Spagna.

Il secondo punto di forza della strategia di campagna di Hollande si è condensato nella sua capacità di “vendere” ai mercati finanziari il rigore, cioè un’immagine di leader che non propone salti nel vuoto e, contemporaneamente, all’opinione pubblica quella del candidato del rilancio, della crescita e della giustizia sociale. Senza dimenticare di sfruttare quel sentimento di acredine misto ad invidia, piuttosto diffuso nel Paese, nei confronti della Germania oramai dominante dell’asse franco-tedesco.

Molto complesso sarà ora tenere insieme i due piani del rigore e della crescita, anche guardando alle proposte del candidato Hollande in materia di pensioni, fiscalità e assunzioni nel pubblico impiego.

Passando all’ultimo dato non si può dimenticare che il vero dominus di questo voto presidenziale è stato il FN di Marine Le Pen. In questo caso ci si trova di fronte ad una delle discontinuità più evidenti rispetto al 1981. In quell’occasione, al primo turno la cosiddetta destra repubblicana, divisa tra quattro candidati (Giscard, Chirac, Michel Debré e Marie-France Garaud) raccoglieva il 49,3% dei voti. Al primo turno Sarkozy si è fermato al 27%. Si può obiettare che il voto a Giscard comprendesse anche una componente non trascurabile di elettorato centrista, resta comunque che la destra post-gollista del 2012 esce dal voto presidenziale malconcia, ma soprattutto sfidata alla sua destra come lo era stata solo alle presidenziali choc del 2002.

Per il neo-inquilino dell’Eliseo saranno ancora più decisive le legislative del prossimo 10-17 giugno. Anche in caso di maggioranza assoluta socialista, Hollande non dovrà dimenticare che al ballottaggio del 6 maggio oltre due milioni di francesi hanno votato scheda bianca o annullato il voto, circa un milione e mezzo in più rispetto al primo turno e la maggioranza di queste schede non appartiene certo ad elettori di sinistra. In secondo luogo l’intero spettro della destra al primo turno ha raccolto circa un milione di voti in più della sinistra, senza contare gli oltre tre milioni di voti centristi andati a Bayrou.

Hollande è atteso da importanti impegni di natura internazionale, primo fra tutti l’incontro con Angela Merkel per discutere quel fiscal compact che, da candidato, egli ha promesso di rinegoziare, ma al quale oggi sembra voler solo aggiungere un protocollo sulla crescita. Dovrà però offrire un’attenzione particolare alla politica interna. La sua è una vittoria netta, ma fragile. Già nella scelta del suo Primo ministro si capirà fino a che punto vorrà davvero porsi come presidente rassembleur. Il sindaco di Nantes e parlamentare di lungo corso Jean-Marc Ayrault sarebbe probabilmente un’opzione meno di rottura rispetto alla più connotata a sinistra Martine Aubry. Come ha ricordato il quotidiano finanziario Les Echos il “presidente normale” rischia di non poter godere nemmeno di una breve “luna di miele”.

 

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