di Giuseppe Balistreri

Le tendenze che gli ultimi risultati elettorali lasciano intravedere vanno sottoposti ad un attento esame politologico. Il successo del Movimento 5 Stelle, lo sgretolamento del centro-destra e l’ingessamento del centro-sinistra, arroccato su uno zoccolo duro che rischia di essere difficilmente spendibile, introducono nuove variabili (per qualche verso impazzite) rispetto all’evoluzione della crisi politica italiana, inauguratasi apertamente con la retrocessione dei partiti a raggruppamenti parlamentari privati del potere esecutivo (una sorta di ritorno sui generis allo Statuto albertino). Si pensi per esempio in quale impasse verremmo a trovarci con un Movimento 5 Stelle che alle politiche risultasse il secondo o anche il terzo partito. Sarebbe la Grecia sotto altre forme.

Le osservazioni che però qui prima vorrei fare, riguardano la sfera culturale prima ancora di quella politica, sono cioè di ordine “culturologico”, se così si potesse dire.

Il quadro politico italiano, già fortemente compromesso, viene ad essere stravolto da una nuova presenza, il cui leader non è soltanto un ex attore (come del resto lo erano stati anche Reagan e Schwarzenegger), ma un comico (non so se anche qui bisogna dire “ex”). Ora, il fatto non è del tutto indifferente, perché nella cultura degli italiani il comico, la comicità, ha tradizionalmente una funzione centrale. L’Italia è terra di comici e da noi il comico è una cosa seria. Anzi, dirò di più, il comico è la forma di espressione tipica della nostra coscienza nazionale. Quello che in altre culture è il poeta o lo scienziato, da noi è il comico. In nessun luogo come in Italia il comico occupa la scena pubblica. Tra i premi Nobel italiani troviamo un grande comico, Dario Fo, un autore nel quale la comicità è difficilmente scindibile dal discorso politico. Roberto Benigni, premio Oscar e forse il nostro maggior comico, ormai viene perfino invitato al Quirinale per tenere delle lezioni scoppiettanti sull’unità d’Italia ed i valori della Costituzione dove il riso si mescola al pianto, l’intrattenimento alla cerimonia. E prima ancora, non sono stati i nostri comici (Sordi, Tognazzi, Gassman, Villaggio ecc. ecc.) ad averci mostrato vizi e virtù degli italiani? Anche il cinema politico è passato da Todo modo o Cadaveri eccellenti, a Cetto La Qualunque. Il comico si è imposto anche come il sale di ogni trasmissione televisiva: i discorsi seri, spesso anche garbati e qualche volta perfino di alto sentire di Fabio Fazio terminano con gli sconci sberleffi della Littizzetto. Neppure Sanremo può fare a meno dei comici.

Sulla presenza del comico nella nostra cultura, dunque, non si discute, sulla sua valenza pubblica (politica) nemmeno. Berlusconi certo non è caduto per opera dei numerosi comici di cui era ovvio bersaglio, ma di certo essi hanno contribuito al suo tramonto. In Italia la cosa peggiore che possa capitare è fare brutta figura e cadere nel ridicolo. Una volta che si è ridicolizzati non c’è più scampo. Le indignazioni contro la nostra classe politica certamente non lasciano indifferente l’opinione pubblica, ma solamente quando esse si svolgono in forma comica raggiungono il loro effetto dirompente. Gli italiani non hanno bisogno di indignarsi, a loro basta ridere di qualcuno o di qualcosa. Il riso sostituisce l’indignazione ovvero il riso diventa la forma stessa dell’indignazione.

E con questo siamo a Beppe Grillo, il comico che non si accontenta più di politicizzare la comicità, ma che comicizza la politica. Egli, certo, così compie un salto su un altro terreno, ma interpreta anche la tendenza di fondo della comicità italiana. E, naturalmente, un fenomeno come quello di Beppe Grillo non sarebbe stato possibile se l’Italia non fosse ridotta nelle condizioni in cui si trova, se cioè la crisi dei partiti non avesse messo un enorme potenziale di voti in libertà, che, come le parole in libertà di Marinetti, ormai non obbediscono più a nessuna grammatica.

In Grecia, precipitata in quel baratro nel cui orlo anche noi ci muoviamo, la reazione alla crisi è stata di tipo tradizionale. Si è ripetuto il dramma di una democrazia che, nei momenti di sbandamento si rivolge alle estreme, cadendo così in quel circolo vizioso che impedisce qualsiasi soluzione. La stessa cosa rischia di accadere in Italia, solo che al posto delle estreme, con cui si esprime la politica di rifiuto, da noi vi è Beppe Grillo, con cui invece si esprime il rifiuto della politica. Certo, il rifiuto della politica non è un’invenzione di Beppe Grillo, è un fenomeno del passato e quanto al presente in qualche modo è stato imposto dagli stessi eventi in corso. Ma Beppe Grillo possiede una marcia in più, e cioè il fattore comicità. Egli interpreta quello spirito italiano che si districa con il comico di fronte ai momenti drammatici. Sembra che, senza riderci su, noi non riusciamo ad elaborare il lutto delle grandi e piccole catastrofi (per es., la guerra mondiale con La grande guerra, l’8 settembre con Tutti a casa, la tragedia dei lager con La vita è bella). Quindi gli italiani sono abituati, nei momenti difficili, ad affidarsi alla comicità.

Ora è evidente che le doti politiche di Grillo si intrecciano fortemente con le sue qualità di comico. Senza il grande tirocinio conquistato nell’arte di far ridere, difficilmente Grillo riuscirebbe ad imporsi nelle piazze. La sua è una retorica di nuovo genere, rispetto a quella di tipo strettamente politico. Perciò la politica si trova spiazzata di fronte ai suoi discorsi. È come se i sarcasmi dell’uomo di strada che commenta la politica al bar, avessero finalmente trovato il linguaggio in grado di imporsi. Bisogna dire anche che la situazione presta il fianco a questo tipo di situazione e che se il paese non fosse allo sbando, certamente non vi sarebbe posto per Beppe Grillo, oppure egli ne avrebbe uno del tutto limitato, alla stregua di un fenomeno curioso, ma marginale, magari divertente, ma niente di più.

Ma il problema è che di fronte a figure politiche scadute al rango di comici dozzinali, la figura del comico di professione svetta in tutta la sua grandezza. Volete capire la politica italiana? Crozza ve la spiega egregiamente, Beppe Grillo la interpreta e decide che è ora di affidare la politica ai comici di professione, piuttosto che lasciarla ad insulsi e disonesti dilettanti. Certo, non che i grillini siano anche loro dei comici, ma prosperano sulle doti istrioniche del loro grande capocomico. Negli ultimi anni ne abbiamo visto di tutti i colori, tanto che ormai gli italiani devono essersi convinti che la politica non è una cosa seria. Ma se è così, perché non metterla in burla e non votare Beppe Grillo? Il senso di questo voto delle ultime amministrative sembra essere proprio questo: avete fatto della politica un baraccone osceno popolato da famelici faccendieri, bunga bunga, igieniste dentali tuttofare, nipoti di Mubarak, falsi laureati con soldi pubblici e chi più ne ha più ne metta? (Da quale fantasia di soggettista avrebbe potuto uscire tutto questo?) Adesso cambiamo copione e beccatevi Beppe Grillo! Se non fosse che magari sono gli stessi elettori che prima ci hanno imposto Berlusconi e la Lega a comminarci ora Beppe Grillo per una sorta di contrappasso. Ma se è così il difetto sta nel manico, e cioè nella natura di quel vasto ceto medio italiano che compone il campo cosiddetto “moderato” (e che invece è estremamente movimentato, a giudicare dai comportamenti elettorali). Posto di fronte alla tragedia della sua decomposizione, sembra essersi detto: “Se proprio dobbiamo morire, almeno moriremo di risate!”.

 

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