di Andrea Beccaro
Malgrado il ritiro americano completato nel dicembre 2011 (nel paese sono rimasti solo 5000 uomini più un numero difficile da calcolare di contractors), con altisonanti affermazioni riguardo la stabilità del paese, la situazione reale in Iraq è molto diversa. Non è possibile in questa sede analizzare nella sua complessità il problema che si lega all’invasione americana, al conflitto civile scoppiato nel 2006 e poi ad alcuni passi americani successivi atti a limitare la violenza stessa. Con il rovesciamento di Saddam la minoranza sunnita è stata spodestata dal potere a vantaggio della maggioranza sciita che ha fin da subito condotto una politica di rivalsa. Ciò, unito agli attacchi mirati del terrorismo internazionale, portò alla guerra civile scoppiata tra il 2005 e il 2006. Nello stesso momento però si sviluppò il cosiddetto Awakening della provincia di Al-Anbar con cui le tribù sunnite si allontanarono dai gruppi terroristici internazionali, sempre presenti sul territorio ma mai numericamente consistenti rispetto al movimento più generale dell’insorgenza (il loro numero si è sempre aggirato intorno alle 1000 unità), avvicinandosi alle forze americane e al governo centrale.
Grazie a ciò, al contemporaneo cessate il fuoco da parte dei gruppi sciiti di al-Sadr e in parte anche alla nuova strategia americana di “contro insorgenza”, la situazione della sicurezza è andata gradualmente migliorando a partire da metà 2007.
Il miglioramento però non significa cessazione delle ostilità. Il marzo 2012 è stato il mese meno sanguinoso dall’inizio del conflitto con “solo” 112 persone uccise (78 civili, 12 militari e 22 poliziotti), ma bisogna ricordare che fluttuazioni anche consistenti di questi dati sono stati una costante per tutta la guerra. Ad esempio nel novembre 2009 i morti erano stati 122 cioè solamente 10 in più. Dunque bisogna guardare altrove per capire a che punto è l’Iraq.
La cronaca irachena ci racconta che nella sola giornata del 20 marzo a Falluja una bomba è stata fatta esplodere nei pressi della casa di un agente di polizia, a Tikrit un’autobomba fuori da una scuola ha ferito quattro insegnanti, una serie di autobombe a Karbala hanno preso di mira la polizia, un convoglio militare è stato attaccato nei pressi di Ramadi, un’autobomba è esplosa a Baghdad nei pressi del ministero degli esteri. Si sono così contati 45 morti e 216 feriti, cifre di poco inferiori a quelle del 23 febbraio quando un’altra serie di attacchi aveva insanguinato l’Iraq e causato 50 morti. Il 19 aprile una serie di esplosioni a Baghdad e Kirkuk hanno causato la morte di 31 persone. Il 26 dello stesso mese un’altra esplosione si è registrata nella capitale, mentre il giorno successivo due esplosioni coordinate e un attacco con armi da fuoco hanno provocato la morte di 13 persone in un piccolo villaggio nella provincia di Diyala.
È impossibile rintracciare le cause di questa violenza e anche i mandanti. Spesso al-Qaeda in Iraq ne è la responsabile, ma semplificare il tutto attorno al gruppo terroristico internazionale è estremamente riduttivo e rischia di ripetere un errore interpretativo di cui furono vittime anche gli americani. Resta però il fatto inconfutabile che il ritiro americano non ha prodotto un miglioramento della sicurezza, e come potava essere altrimenti visto che si eliminavano dalle strade truppe ben armate, addestrate e ormai esperte dell’area? La violenza nel paese è un dato di fatto, anche se su livelli decisamente inferiori all’inferno degli anni compresi tra il 2004 e la prima parte del 2007.
Quello che però emerge da questo breve elenco di attacchi è che la violenza da un lato è endemica e dall’altro pur annoverando diverse vittime è spesso piuttosto selettiva, ha obiettivi specifici come governatori, ufficiali della polizia e altre figure politiche e militari di rilievo. Ovvero le operazioni con autobombe e attentatori suicidi (ricordiamo che il teatro iracheno è stato quello con il maggior numero di azioni di questo genere) sono più indiscriminate, anche se spesso il veicolo è parcheggiato nei pressi di edifici di rilevanza politica; mentre la violenza con armi da fuoco è spesso più selettiva e prende di mira figure chiave come ufficiali dell’esercito o della polizia, governatori e politici di vario rango (oppure loro familiari o collaboratori). Sicuramente parte di questa violenza, specie quella che usa le tattiche più indiscriminate, è legata ai gruppi che a vario titolo possono essere ricondotti alla galassia di Al-Qaeda, ma un’altra importante porzione è invece figlia delle lotte interne tra sciiti e sunniti. Lotte iniziate subito dopo la caduta di Baghdad e che malgrado i passi in avanti compiuti faticano a essere completamente ricomposte anche a causa della politica di Baghdad, e di Maliki in particolare, non sempre ben disposta a integrare nelle proprie forze dell’ordine gli ex Sons of Iraq e ad ascoltare le voci sunnite.
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