Un sottile ma tenace filo accomuna gli scrittori medievali. Il ricorso a citazioni di opere precedenti, utilizzate come garanzia di verità di quanto sostenuto. Come credenziali di credibilità. Secondo quanto afferma San Bonaventura nel proemio ai Commentaria in Sententias Magistri Petri Lombardi, riportare “il materiale altrui allo scopo di confermare il proprio”. Sfortunatamente non sempre partendo da premesse condivisibili. Distorcendo il modello di partenza, strumentalizzandone il senso per provare a suffragare il proprio, interessato, scopo. Usurpandone l’originaria valenza. Sul banco degli imputati la Germania di Tacito. Anzi l’appropriazione ideologica, ossessiva e ignominiosa, che ne fece il nazionalsocialismo. Un recente saggio, tradotto in tedesco, spagnolo, olandese e coreano, ricostruisce la vicenda del libro e delle sue letture, per così dire “deviate”, documentando il presunto incitamento al nazismo presente nell’opera dello storico (Christopher B. Krebs, A Most Dangerous Book. Tacitus’s Germania from the Roman Empire to the Third Reich, W. W. Norton & Company, New Yorck London, pp. 304, $ 25,95).
A dispetto degli entusiastici commenti al trattato latino di Enea Silvio Piccolomini e Montesquieu, la sua fortuna in terra tedesca sembrerebbe confermare il giudizio quasi senza appello di Arnaldo Momigliano. La sua definizione della Germania come “uno dei cento libri più pericolosi che siano mai stati scritti”, in realtà svilisce l’indagine etnografica di Tacito, perlopiù disinteressandosi di gran parte di essa, ponendo il focus su un paragrafo. Breve ma fondamentale. Sul quale sono stati costruiti per quattro secoli l’identità di un popolo e, nel Novecento, gli orrori del genocidio. Sostituendo la corretta lettura filologica con una storpiatura ideologizzata. “Io mi associo all’opinione di quanti ritengono che i popoli della Germania, non macchiati da alcun matrimonio con altre genti, siano rimasti una stirpe distinta, pura e simile solo a se stessa”, afferma Tacito. Su quel “non macchiati” (“… Germaniae populos nullis aliis aliarum nationum conubiis infectos …”, nel testo latino) si é incardinata l’architettura di un razzismo senza ratio, venendo meno all’intento dell’autore della Germania. L’esaltazione degli elementi che contribuiscono alla loro purezza razziale, peraltro “selezionati” rispetto alla descrizione latina, quasi obliterano nella lettura partigiana l’elencazione dei caratteri culturali e morali che li identificano. Così, non per caso, scompaiono elementi negativi, come l’essere ubriaconi, violenti, superstiziosi e dediti al sacrificio umano, che li allontanavano dai Romani per avvicinarli ai barbari.
Al fondo di tutto, almeno agli inizi del fenomeno, in pieno Umanesimo, la rilettura della Germania rappresenta lo sforzo di ricostruire un passato unitario e in qualche misura attraente, per un popolo disunito, oltre che privo di una tradizione culturale solida. Ancora all’inizio dell’Ottocento, quando iniziano i riferimenti a un “sangue” tedesco, diretto erede dei fieri e coraggiosi progenitori tratteggiati da Tacito, non é possibile prevedere il folle scatto in avanti di Himmler. Il suo programma di selezione razziale nel nome della “gloriosa immagine di superiorità, purezza e nobiltà dei nostri antenati”. Anche se, come annota Canfora, la deriva tedesca apparirebbe in nuce già nel 1808, nei Discorsi alla nazione tedesca di Fichte. Poi, in maniera più matura, verso la fine del secolo nell’Altdeutscher Verband, l’Associazione pantedesca destinata a confluire nel 1939 nel movimento nazista. Comunque la Germania, riprodotta in pillole nei manuali redatti per la gioventù hitleriana, base della perfida ideologia nazista, divenne, per certi versi, come l’Eneide di Virgilio e le Odi di Orazio nell’Italia fascista, lo strumento di legittimazione del nuovo potere assoluto. La classicità romana, alcune opere in particolare, la coincidenza di una fitta e fortunata serie di bimillenari, la realizzazione nel settore dell’urbanistica e dell’archeologia di operazioni chiaramente evocative, divenne la chiave di volta di un’operazione che mirava a creare un collegamento tra il vecchio ed il nuovo impero.
Tacito, lo “scrittore latino più futurista” a detta di Marinetti, ha alimentato una storia alla quale non pensava, ha fondato, irrobustendoli, i propositi di una parte. Certamente senza volerlo. Il suo “proposito é riferire […], senza ostilità e parzialità, dalle cui cause sono lontano”, scriveva negli Annales perché non ci fossero dubbi né fraintendimenti. Che, sfortunatamente, sappiamo, ci sono stati.
di Manlio Lilli
Un sottile ma tenace filo accomuna gli scrittori medievali. Il ricorso a citazioni di opere precedenti, utilizzate come garanzia di verità di quanto sostenuto. Come credenziali di credibilità. Secondo quanto afferma San Bonaventura nel proemio ai Commentaria in Sententias Magistri Petri Lombardi, riportare “il materiale altrui allo scopo di confermare il proprio”. Sfortunatamente non sempre partendo da premesse condivisibili. Distorcendo il modello di partenza, strumentalizzandone il senso per provare a suffragare il proprio, interessato, scopo. Usurpandone l’originaria valenza. Sul banco degli imputati la Germania di Tacito. Anzi l’appropriazione ideologica, ossessiva e ignominiosa, che ne fece il nazionalsocialismo. Un recente saggio, tradotto in tedesco, spagnolo, olandese e coreano, ricostruisce la vicenda del libro e delle sue letture, per così dire “deviate”, documentando il presunto incitamento al nazismo presente nell’opera dello storico (Christopher B. Krebs, A Most Dangerous Book. Tacitus’s Germania from the Roman Empire to the Third Reich, W. W. Norton & Company, New Yorck London, pp. 304, $ 25,95).
A dispetto degli entusiastici commenti al trattato latino di Enea Silvio Piccolomini e Montesquieu, la sua fortuna in terra tedesca sembrerebbe confermare il giudizio quasi senza appello di Arnaldo Momigliano. La sua definizione della Germania come “uno dei cento libri più pericolosi che siano mai stati scritti”, in realtà svilisce l’indagine etnografica di Tacito, perlopiù disinteressandosi di gran parte di essa, ponendo il focus su un paragrafo. Breve ma fondamentale. Sul quale sono stati costruiti per quattro secoli l’identità di un popolo e, nel Novecento, gli orrori del genocidio. Sostituendo la corretta lettura filologica con una storpiatura ideologizzata. “Io mi associo all’opinione di quanti ritengono che i popoli della Germania, non macchiati da alcun matrimonio con altre genti, siano rimasti una stirpe distinta, pura e simile solo a se stessa”, afferma Tacito. Su quel “non macchiati” (“… Germaniae populos nullis aliis aliarum nationum conubiis infectos …”, nel testo latino) si é incardinata l’architettura di un razzismo senza ratio, venendo meno all’intento dell’autore della Germania. L’esaltazione degli elementi che contribuiscono alla loro purezza razziale, peraltro “selezionati” rispetto alla descrizione latina, quasi obliterano nella lettura partigiana l’elencazione dei caratteri culturali e morali che li identificano. Così, non per caso, scompaiono elementi negativi, come l’essere ubriaconi, violenti, superstiziosi e dediti al sacrificio umano, che li allontanavano dai Romani per avvicinarli ai barbari.
Al fondo di tutto, almeno agli inizi del fenomeno, in pieno Umanesimo, la rilettura della Germania rappresenta lo sforzo di ricostruire un passato unitario e in qualche misura attraente, per un popolo disunito, oltre che privo di una tradizione culturale solida. Ancora all’inizio dell’Ottocento, quando iniziano i riferimenti a un “sangue” tedesco, diretto erede dei fieri e coraggiosi progenitori tratteggiati da Tacito, non é possibile prevedere il folle scatto in avanti di Himmler. Il suo programma di selezione razziale nel nome della “gloriosa immagine di superiorità, purezza e nobiltà dei nostri antenati”. Anche se, come annota Canfora, la deriva tedesca apparirebbe in nuce già nel 1808, nei Discorsi alla nazione tedesca di Fichte. Poi, in maniera più matura, verso la fine del secolo nell’Altdeutscher Verband, l’Associazione pantedesca destinata a confluire nel 1939 nel movimento nazista. Comunque la Germania, riprodotta in pillole nei manuali redatti per la gioventù hitleriana, base della perfida ideologia nazista, divenne, per certi versi, come l’Eneide di Virgilio e le Odi di Orazio nell’Italia fascista, lo strumento di legittimazione del nuovo potere assoluto. La classicità romana, alcune opere in particolare, la coincidenza di una fitta e fortunata serie di bimillenari, la realizzazione nel settore dell’urbanistica e dell’archeologia di operazioni chiaramente evocative, divenne la chiave di volta di un’operazione che mirava a creare un collegamento tra il vecchio ed il nuovo impero.
Tacito, lo “scrittore latino più futurista” a detta di Marinetti, ha alimentato una storia alla quale non pensava, ha fondato, irrobustendoli, i propositi di una parte. Certamente senza volerlo. Il suo “proposito é riferire […], senza ostilità e parzialità, dalle cui cause sono lontano”, scriveva negli Annales perché non ci fossero dubbi né fraintendimenti. Che, sfortunatamente, sappiamo, ci sono stati.