di Saro Freni
Sono tre i soggetti politici che in questo frangente storico occupano la ribalta in Italia.
Uno, naturalmente, è la classe dirigente di governo: donne e uomini perlopiù nuovi alla politica, ma non per questo ignari delle sue astuzie e dei suoi trucchi. Questo soggetto si presenta come fortemente connotato da una carica antipartitica, se non altro perché è stato percepito come conseguenza del fallimento del governo precedente e, più in generale, del ceto politico professionale secondorepubblicano.
Quest’ultimo, altro attore sulla scena, è fortemente screditato, perché su di esso gravano pesanti addebiti, accentuati da un sentimento di insofferenza contro gli sprechi, gli abusi e il malaffare: questi fattori contribuiscono a ingenerare nell’opinione pubblica l’idea che la politica sia – non soltanto sporca – ma fondamentalmente inutile; o, per lo meno, appaiono inutili le sue liturgie, la sua organizzazione classica, la forma partito, la mobilitazione di tipo tradizionale.
Il terzo elemento della triade è quello che possiamo definire l’antipartitismo organizzato – che chiameremo, per comodità, grillismo – il quale si oppone sia al governo tecnico, visto come l’ennesima maschera indossata dal sistema per autoconservarsi, sia ai partiti, considerati una forma di mediazione nociva alla corretta rappresentanza degli interessi dei cittadini.
Quando parlo di “antipartitismo organizzato” mi riferisco ad alcune convinzioni che mi pare orientino i discorsi del suo leader. Per il grillismo, il cittadino comune è istintivamente legato ad ogni suo omologo per il solo fatto di non far parte della casta. Nella visione di Grillo, tra i cittadini comuni non sorgono conflitti che hanno in gioco interessi concreti. O comunque queste distinzioni sono inezie rispetto al conflitto principale che l’antipartitismo adotta come schema interpretativo basilare: la lotta tra il cittadino qualunque e la classe dirigente.
Da questo punto di vista, questo movimento si presenta come decisamente interclassista. Non soltanto perché respinge la concezione marxista della lotta di classe, che ormai è un punto di riferimento per pochi; ma anche perché sembra rifiutare quella lotta di classe a bassa intensità – per esempio tra dipendenti pubblici e lavoratori autonomi o tra nord e sud – che anima ancora alcuni partiti e motiva un certo elettorato, sia in un senso che nell’altro. Non è sfuggito che Grillo ha adoperato alcuni slogan non dissimili dalle parole d’ordine leghiste (e berlusconiane) sulla rivolta fiscale e sul diritto di non pagare imposte troppo esose. Ma mentre la versione berlusconiana e/o leghista era fortemente divisiva e tendeva a creare delle linee di frattura orizzontali all’interno dell’elettorato (contro la gente di sinistra, contro gli impiegati statali, contro le frange più sindacalizzate del lavoro), Grillo invita tutti gli elettori, senza distinzioni, alla coesione, nella convinzione che le divisioni tra i cittadini siano il prodotto malato di una battaglia politica indotta dal sistema, che in ultima analisi si rivela fittizia e virtuale.
In realtà, spiega, gli “uomini qualunque” – per usare le parole di un illustre precursore – non hanno nessuna ragione per combattersi tra di loro: gli unici veri nemici sono i politici e i loro reggicoda. Facendo ciò, si allontana anche da una certa sinistra, la quale – specularmente alla destra – individua i suoi avversari in quei settori della società che la votano meno e accomuna i suoi oppositori in definizioni spesso generiche e sommarie (i lavoratori autonomi visti tutti come sicuri evasori, gli imprenditori scambiati per affamatori del popolo, ecc.). Da questo punto di vista, la concezione grillina è ottimista e inclusiva: ritiene di poter rivolgersi a tutti, crede di poter convincere chiunque grazie alle verità autoevidenti che propone, non si pone limiti invalicabili a priori. Gli unici elettori esclusi per definizione sono, naturalmente, i politici e la loro cerchia, che Grillo considera – comunque – un’infima minoranza. Vi è, forse, una sottovalutazione del fatto che i successi della politica clientelare nascono da una ben più vasta ramificazione di complicità e omissioni, che coinvolge la cittadinanza in modo più profondo di quanto non conceda un’idea così manichea.
Una visione delle cose di questo tipo ha un corollario di non poca importanza: la massa è debole perché disorganizzata, o perché manca di sufficiente consapevolezza dei suoi interessi antipartitici. L’élite dei partitocrati, invece, è organizzata, è consapevole dei suoi interessi (che sono immancabilmente inconciliabili con quelli dell’elettorato, cioè di chi non partecipa ai banchetti del potere) ed è solidale (destra e sinistra, nella visione di Grillo, sono unite nella lotta).
Il punto più rilevante da osservare è quello, appunto, dell’organizzazione. Come già accennato all’inizio, il grillismo reputa antiquati e inservibili i vecchi metodi di organizzazione che hanno caratterizzato i partiti di integrazione di massa, che persistono solo come residuo e incrostazione del passato. E ritiene che internet possa sostituirli, in tutto e per tutto. Ci riuscirà? Ai posteri l’ardua sentenza. E comunque – alla luce dei recenti risultati elettorali delle amministrative – pare che questo nuovo movimento abbia molte ragioni dalla sua parte.
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