di Emanuele Schibotto*
Nel 2010 il libro di Ian Bremmer The End of the Free Market: Who Wins the War Between States and Corporations?, assieme ad altre pubblicazioni, riporta all’attenzione internazionale il concetto di “capitalismo di Stato”, studiato e diffuso nella prima metà del Novecento, di fatto scomparso con la fine della Seconda Guerra mondiale e la divisione bipolare per essere successivamente ripreso dalla leadership cinese nel 1978 con l’intento di ripensare il proprio modello economico ed intraprendere un sentiero di sviluppo, rivelatosi straordinario.
Il “capitalismo di Stato” viene definito da Bremmer come “quel gioco nel quale il governo controlla la maggior parte degli arbitri ed un numero sufficiente di giocatori così da consentirgli di aumentare le proprie possibilità di determinare il risultato del gioco”. Un tale sistema prevede una grande apertura verso gli scambi internazionali (di merci e capitali), temperata però da un indirizzo del mercato ad uso e consumo della politica.
La tesi sostenuta da Bremmer insiste sull’efficacia del modello cinese in termini di sviluppo economico e sul rischio che tale esperienza diventi motivo di emulazione per gli altri Paesi in via di sviluppo, a tutto detrimento della capacità di attrazione del modello democratico-occidentale. Un modello peculiare, quello cinese, che finora ha garantito in maniera puntuale la sua promessa numero uno: la crescita economica. Dall’Africa al Golfo Persico all’America Latina, Pechino viene sempre più ritenuta non solo un socio d’affari importante, quanto un esempio (vincente) alternativo al liberismo economico professato dagli USA.
Ora, se sotto il profilo economico la macchina cinese continuerà ragionevolmente a crescere nel medio/lungo periodo, è il tessuto politico ad essere messo in discussione, ovvero il sistema di raccordo tra politica e business. Decifrare il clima politico cinese è impresa quantomeno difficile, ma due episodi recenti indicano senza dubbio un momento di stress sopportato dall’apparato politico, che potrebbe essere di carattere strutturale.
La vicenda che ha coinvolto Bo Xilai, capo del Partito di Chongqing, membro del Politburo, candidato ad un ruolo di rilievo nella futura leadership nazionale ed ora epurato dal Partito perché sospettato di “gravi violazioni disciplinari” a seguito dell’uccisione dell’uomo d’affari inglese Nei Heywood e di altri episodi, mette in evidenza un impianto di governance politica in affanno, vittima di una lotta di potere che espone il Partito ad accuse esplicite di corruzione, malversazione e malgoverno.
La storia dell’attivista cieco Chen Guangcheng, fuggito dagli arresti domiciliari, rifugiatosi presso l’Ambasciata USA di Pechino e ora accolto a New York dal Governo statunitense (creando inevitabili tensioni diplomatiche tra Washington e Pechino) sottolinea invece la difficoltà montante per il Partito nella gestione del dissenso. Si consideri che ogni anno in Cina vi sarebbero in media oltre 100.000 proteste di massa, le quali generano spese statali per il “mantenimento dell’ordine pubblico” di oltre 100 miliardi di dollari (cifra superiore alle spese per la difesa).
In un articolo pubblicato sul Wall Street Journal, Minxin Pei scrive: “Dall’esperienza quasi-suicida di Tienanmen in avanti il Partito ha prosperato. Oggi conta 80 milioni di membri e il suo potere politico, garantito dalla forza militare, dalla polizia segreta e dalla censura su internet, sembra inattaccabile. Eppure, dietro questa facciata di forza apparente si nascondono fragilità strutturali: dai dissidi interni alle élite, alla corruzione endemica, alla sfida lanciata dai dissidenti, alle proteste di massa – e la lista potrebbe continuare […] Sulla base delle nostre conoscenze in merito alla durata dei regimi autoritari, il governo del Partito Comunista Cinese sta entrando nella sua fase più pericolosa”.
La nuova classe dirigente cinese, a seguito del ricambio politico in programma il prossimo ottobre, avrà di fronte non solo sfide di politica estera cruciali (su tutte: la gestione del rapporto con gli Stati Uniti e le dispute diplomatiche più o meno latenti in essere con diversi Paesi asiatici) ma anche situazioni di gestione del potere sempre più problematiche. Luigi Einaudi scriveva che “la libertà economica è la condizione necessaria della libertà politica”. Raggiunta sostanzialmente la prima (intesa nella fattispecie come libertà dalla fame) per la maggioranza della popolazione, l’esperimento cinese nei prossimi anni ci dirà se per raggiungere la seconda (la libertà politica) il “capitalismo di stato” sarà uno strumento altrettanto efficace.
*Dottorando di ricerca in geopolitica economica presso l’Università Marconi e Coordinatore del Centro Studi di Geopolitica e Relazioni Internazionali Equilibri.net