di Damiano Palano

Da quando è apparso sul proscenio politico, il movimento Occupy Wall Street è diventato uno dei simboli non solo del disagio delle nuove generazioni, ma anche del malessere delle nostre democrazie, sempre meno capaci di governare i flussi di un’economia “finanziarizzata” e al tempo colpite da una crescente disaffezione. Come è avvenuto per gli Indignados spagnoli, anche l’esempio del movimento newyorkese ha dato subito avvio a un processo imitativo che è dilagato un po’ per tutto il globo. Ma se le manifestazioni della protesta hanno conquistato un’immediata popolarità, e probabilmente anche un largo sostegno presso componenti non marginali dell’opinione pubblica, le coordinate ‘ideologiche’, le fonti di ispirazione teorica, e forse anche gli obiettivi di medio periodo, sono rimasti nell’ombra. Per molti versi, si tratta di un fenomeno del tutto comprensibile, sia perché è pressoché impossibile ridurre la complessità di un movimento – peraltro così eterogeneo e contrassegnato da una marcata componente di spontaneità – a un’unitaria matrice ideologico-politica, sia perché è molto difficile racchiudere il senso di una mobilitazione ricorrendo alle più consuete categorie politiche novecentesche (come ‘marxismo’, ‘anarchismo’, ‘socialismo’), senza al tempo stesso tradire lo spirito di un percorso che, per molti versi, prende le mosse proprio da una critica delle grandi ideologie del XX secolo.

Per comprendere qualcosa di più dell’eterogeneo panorama intellettuale in cui matura il movimento di Occupy Wall Street è forse utile leggere il volume di David Graeber, Critica della democrazia occidentale. Nuovi movimenti, crisi dello Stato, democrazia diretta (elèuthera, pp. 119, euro 10.00), originariamente pubblicato nel 2007 e ora tradotto in italiano. Naturalmente, benché Graeber abbia partecipato alle prime fasi delle mobilitazioni newyorkesi, non può essere considerato né come un ‘ideologo’ di quel movimento, né come un suo riferimento privilegiato. Più semplicemente, la sua riflessione offre invece l’esemplificazione di una rilettura contemporanea dell’«anarchismo», una componente certo ben presente all’interno delle mobilitazioni degli ultimi anni. Autore di diversi studi di antropologia, Graeber ha lavorato per diversi anni all’Università di Yale, da cui è stato allontanato nel 2005, e insegna ora alla Goldsmiths University di Londra. In Italia il suo nome non è particolarmente noto, ma alcuni suoi testi – a metà fra lo studio etnografico e un dichiarato impegno politico – sono già stati tradotti, o sono in via di traduzione (come per esempio The Debt. The First 5.000 years, di cui dovrebbe apparire presto l’edizione italiana presso il Saggiatore), e possono così contribuire a chiarire cosa si nasconda oggi dietro la rivendicazione – un po’ romantica, e all’apparenza ingenua – di una ‘democrazia diretta’.

Per molti versi, al cuore della proposta di Graeber si trovano alcuni degli elementi che alimentano il pensiero anarchico ottocentesco, a partire da una visione nettamente negativa dello Stato e, in generale, di qualsiasi forma di autorità, e si possono persino ritrovare l’aspirazione a un pieno autogoverno e a una reale uguaglianza. Ma, se tutti questi elementi potrebbero indurre a liquidare la riflessione di Graeber come un’accozzaglia di farneticazioni utopistiche del tutto anacronistiche, in realtà la «critica della democrazia occidentale» promessa nel titolo del volumetto da poco pubblicato in italiano si rivela tutt’altro che semplicistica, anche se – com’è ovvio – non necessariamente condivisibile nelle conseguenze politiche che suggerisce. In effetti, la posizione politica di Graeber è esplicita e dichiarata fin dalle prime pagine, ed è una posizione che si rifiuta di adottare la parola «democrazia» nel suo significato ormai più abituale, per indicare cioè quella forma di regime fondata sulla rappresentanza politica e sulla scelta dei rappresentanti mediante elezioni libere, ripetute e corrette. Per Graeber, la democrazia ha a che vedere piuttosto con «l’immagine di persone comuni che cercano di risolvere i propri affari in maniera collettiva», e dunque coincide, in termini molto generali, con «il modo in cui le comunità risolvono le proprie faccende attraverso un processo di discussione pubblica relativamente aperto ed egualitario» (pp. 34-35). Ma, a partire da questa visione, forse generica ma non infondata, Graeber procede a una storia critica della democrazia, che non si risolve in una storia del termine o del concetto, ma cerca piuttosto di capire quando, come e perché forme democratiche si siano effettivamente realizzate nella storia.

Da questo punto di vista, il principale bersaglio polemico è costituito dalle tesi secondo cui la democrazia è un’invenzione occidentale, e secondo cui dall’Occidente si è poi diffusa nel resto del mondo, ‘contagiando’ (con maggiore o minore successo) aree geografiche e popolazioni cui erano in origine del tutto estranei i valori occidentali. In realtà, sostiene Graeber, le cose non sono così semplici, non perché l’idea di democrazia non nasca effettivamente nell’Atene di Pericle, ma perché il filo che lega l’Atene del V secolo a.C. ai sistemi rappresentativi occidentali è molto più intricato di quanto si tenda spesso a ritenere. Tanto per cominciare – sostiene Graeber – la «civiltà occidentale» non esiste, nel senso che non esiste un patrimonio omogeneo, che unisca davvero esperienze così lontane nel tempo e nello spazio. E, soprattutto, non si può ritenere che alcuni specifici valori – la libertà, il rispetto della legge, l’aspirazione alla democrazia – siano distintivi della «civiltà occidentale», se non espungendo altri aspetti che – a cominciare dall’espansionismo o dal razzismo – contrassegnano indiscutibilmente la storia di molti paesi europei. Anche perché, quella che molti studiosi, a partire da Samuel Huntington, considerano come la «civiltà occidentale» corrisponde in realtà al sistema-mondo nord-Atlantico che prende forma attorno al XVI secolo, quando il Mediterraneo e le sue città scivolano in una posizione semi-periferica. E, a ben vedere, non si tratta certo di un sistema-mondo che abbia soltanto esportato nel mondo valori di libertà e democrazia.

La critica di Graeber però non si arresta qui, e soprattutto non si limita affatto a ‘smascherare’ la democrazia, mostrando come abbia rappresentato soltanto la maschera ideologica per legittimare l’espansione coloniale o la supremazia culturale dell’Occidente. In effetti, l’operazione di Graeber è molto più raffinata, perché punta piuttosto a sostenere come la «civiltà occidentale» e la filiazione delle democrazie contemporanee dai precedenti greci vadano piuttosto intese come espressioni di una continuità ‘letteraria’, ossia come la ricerca di precedenti capaci di dare un senso a istituzioni che prendono forma in presenza di determinate circostanze. La tesi di Graeber è allora duplice, perché, per un verso, riguarda la genesi della democrazia, mentre, per l’altro, concerne le modalità con cui la democrazia viene legittimata con una sorta di ‘invenzione’ della tradizione democratica.

In primo luogo, la democrazia – intesa in termini molto generali, come forma decisionale egualitaria adottata da una comunità – rinasce più volte, nel tempo e nello spazio, perché scaturisce da condizioni specifiche in cui il consenso di tutti diventa indispensabile, e in cui diventa preferibile adottare come criterio decisionale quello dell’unanimità, per evitare che emergano conflitti suscettibili di lacerare la coesione interna. «La procedura di creazione del consenso è tipica di quelle società in cui non c’è modo di obbligare la minoranza a concordare con le decisioni della maggioranza, o perché non esiste uno Stato con il monopolio della forza coercitiva, o perché lo Stato tende a non intervenire nelle decisioni locali non avendo interesse a farlo. Se non c’è modo di obbligare chi dissente ad adeguarsi alla decisione di una maggioranza, allora l’ultima cosa da fare è ricorrere a un voto, ovvero a una sfida pubblica in cui qualcuno perderà pubblicamente. Probabilmente votare garantirà quell’insieme di umiliazione, risentimento e odio che alla fine conduce alla distruzione di ogni comunità. […] Abbiamo […] a che fare con un processo di compromesso e sintesi volto a produrre decisioni che nessuno troverà così radicalmente inaccettabili da doverle rifiutare. Questo vuol anche dire che i due ambiti normalmente separati – quello in cui vengono prese le decisioni e quello in cui vengono attuate – si sono di fatto dissolti. Non si tratta di essere tutti d’accordo. Molte forme di consenso implicano una varietà di forme più o meno sfumate di consenso. Il punto è questo: bisogna garantire che nessuno se ne vada con la convinzione che le sue prospettive siano state totalmente ignorate, di modo che, pur ritenendo che il gruppo ha preso una cattiva decisione, sia comunque disposto a dare il proprio assenso passivo» (p. 57). La concezione della democrazia maggioritaria si discosta evidentemente da questa pratica unanimistica, ma, a ben vedere, si regge sul presupposto che esista uno Stato dotato di potere coercitivo, e dunque in grado di imporre le decisioni anche ai gruppi refrattari. Proprio questa condizione si è però di rado presentata storicamente, e soprattutto ancor più di rado si è associata all’idea che le decisioni debbano essere assunte dai cittadini. In generale, invece, «le pratiche democratiche – definite come procedure decisionali egualitarie oppure modalità di governo basate sulla discussione pubblica – tendono a emergere da situazioni in cui comunità di vario genere gestiscono i propri affari al di fuori dell’ambito dello Stato» (p. 85). Spesso, inoltre, «l’innovazione democratica e la comparsa dei cosiddetti ‘valori democratici’ tendono dunque a emergere nelle ‘zone di improvvisazione culturale’, di solito al di fuori dal controllo statale, in cui persone diverse, con differenti tradizioni ed esperienze, sono costrette a inventarsi un qualche modo per rapportarsi agli altri» (p. 85). Ed è per questo che la ri-nascita delle pratiche democratiche può essere riconosciuta nei luoghi più disparati, come le formazioni militari degli opliti greci, tra gli equipaggi delle navi pirata, nelle comunità di frontiera del Madagascar o dell’Islanda medievale, nelle comunità mercantili dell’Oceano Indiano, nelle confederazioni dei nativi americani.

In secondo luogo, se i meccanismi democratici vengono adottati piuttosto ‘spontaneamente’, in presenza di specifiche condizioni politiche, la storia intellettuale della democrazia segue invece una traiettoria diversa. In questo senso, Graeber non ha troppe difficoltà a mostrare come la «civiltà occidentale», o meglio la riflessione politica condotta da Platone sino Thomas Hobbes, non abbia certo professato un incondizionato sostegno alla democrazia, che anzi è stata quasi invariabilmente dipinta come il regno della plebe e come una fonte di disordine. Ma Graeber non si limita a mostrare come una rottura avvenga solo dopo la metà dell’Ottocento, quando la democrazia inizia a essere intesa in termini meno negativi, e si comincia a trovare una parentela fra le nuove istituzioni rappresentative e la vecchia democrazia ateniese. Perché mostra anche come si tratti di un procedimento con cui si cercano nella tradizione letteraria precedenti in grado di nobilitare un esperimento. Per questo, ha poco senso chiedersi se davvero – come alcuni hanno sostenuto – i costituenti americani abbiano subito l’influenza della Lega delle Sei Nazioni (la confederazione delle tribù dei nativi americani), o se la tradizione ‘democratica’ dei pirati abbia davvero fornito un alimento al successivo revival democratico. Probabilmente è possibile che qualcosa del genere sia avvenuto, perché ogni cultura vive di continui interscambi e influenze. Ma non ha neppure senso chiedersi se la tradizione democratica occidentale sia realmente ‘autentica’. Come scrive Graeber, infatti: «le tradizioni sono sempre in gran parte inventate, costruite; anzi, le tradizioni consistono appunto in questo continuo lavoro di costruzione. Il punto che mi interessa è invece che ci troviamo di fronte a élites politiche – o ad aspiranti élites – che in entrambi i casi recuperano una tradizione democratica per convalidare forme di governo sostanzialmente repubblicane. Ne consegue che non solo la democrazia non è stata un’invenzione dell’Occidente, ma non è un’invenzione dell’Occidente neppure questo processo di recupero e di rifondazione democratica» (p. 92).

Sebbene possa risultare indigesta a molti, l’argomentazione critica sviluppata da Graeber appare – a giudizio di chi scrive – piuttosto convincente, proprio perché può essere considerata come un salutare antidoto contro molti luoghi comuni in cui si finisce sempre più spesso con l’avvitarsi quando si parla della ‘crisi’ della democrazia contemporanea. Oltre a una pars destruens, la critica della democrazia occidentale articolata da Graeber ha però anche una pars costruens, ed è qui che – prevedibilmente – emergono invece alcuni dei limiti più evidenti. Dinanzi a quella che appare all’antropologo americano come una «crisi dello Stato», le pratiche democratiche sono destinate infatti – secondo Graeber – ad acquisire un ruolo sempre maggiore. In questo senso, la proposta ‘neo-zapatista’ – che riprende la pratica indigena di processi decisionali egualitari, ‘reinventandola’ come forma di democrazia – può essere configurata come una rottura con l’immaginario della ‘presa del potere’ e come l’anticipazione di «un processo di rifondazione della democrazia basato sull’auto-organizzazione di comunità autonome» (p. 108). Così, la democrazia pare debba tornare in quegli interstizi, in quegli spazi intermedi, in cui era sorta.

Naturalmente, questa previsione – che, d’altro canto, è formulata in termini molto cauti e problematici, più che altro come un auspicio – non può che destare qualche perplessità. Se non altro perché non è ben chiaro quali dovrebbero essere le risorse materiali a disposizione di queste nuove cellule di ‘rigenerazione democratica’. A ben vedere, infatti, quasi tutti gli esempi che evoca Graeber quando parla delle «pratiche democratiche» si riferiscono a comunità con un instabile equilibrio interno, ma in cui i diversi strati e gruppi hanno a disposizione risorse materiali per opporsi all’eventuale ‘tirannia’ della maggioranza, sia che si tratti degli opliti greci, sia che si tratti dell’equipaggio di una nave pirata, sia che si tratti delle tribù dei nativi americani. In altre parole, ciò che rende quasi obbligata l’adozione del criterio unanimistico è proprio l’incertezza del risultato, o meglio il rischio della dissoluzione dell’unità che potrebbe provocare un voto a maggioranza. Se questo meccanismo si produce all’interno di tutte quelle formazioni cui Graeber affida la causa della rigenerazione democratica, per pensare che un simile meccanismo possa davvero incidere sugli equilibri della politica mondiale (o anche solo nazionale) è indispensabile rimuovere dal campo proprio la questione del potere, o meglio dei rapporti di forza. Perché, se forse gli Stati non sono più ‘autonomi’ come un tempo, e se paiono forse minati da una ‘crisi’ non congiunturale, il loro potere appare comunque soverchiante rispetto a quello di comunità informali, che non possono certo supplire all’assenza di risorse materiali con la semplice evocazione del consenso o della rappresentanza di una ‘maggioranza morale’. In altre parole, si può legittimamente pensare che – per parafrasare il titolo di un libro di John Holloway – ‘prendere il potere’ sia del tutto inutile per ‘cambiare il mondo’. Ma ciò non significa probabilmente che – anche in società frammentate come le nostre – si possa ipotizzare un qualche genere di cambiamento senza porsi, almeno in parte, proprio il problema dei rapporti di forza. O, quantomeno, senza affrontare minimamente la questione delle risorse materiali da mettere sul piatto per bilanciare il peso soverchiante degli attori di un’economia senza volto, senza luoghi e senza confini.

 

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