di Alessando Campi
Passata la paura, resta la preoccupazione. Il voto in Grecia, che ha premiato i conservatori di Nuova Democrazia e stoppato la sinistra radicale ostile al piano lacrime e sangue imposto al Paese dalla comunità internazionale in cambio di consistenti aiuti finanziari, ha fatto tirare un sospiro di sollievo alle cancellerie europee e alle borse. Ma l’effetto balsamico è durato poco.
Il governo di coalizione che dovrebbe nascere dall’accordo tra la destra europeista e i socialisti del Pasok, al quale si chiede non solo di rispettare gli accordi sottoscritti in sede europea ma anche di rimettere un po’ di ordine nell’economia, nelle istituzioni e nella burocrazia di quella che fu la culla della democrazia occidentale e che oggi è una nazione disastrata sotto ogni aspetto, potrebbe infatti rivelarsi inetto e inaffidabile, incline ai sotterfugi e agli accomodamenti, esattamente come quelli che, guidati da queste stesse forze politiche, hanno portato la Grecia al disastro nel giro di pochi anni. A quel punto si chiederebbe ai greci di andare al voto per la terza volta o si procederebbe d’ufficio ad espellerli dal concerto europeo, costi quel che costi?
Quanto al nervosismo delle principali piazze borsistiche (a partire da quella di Milano), si spiega col convincimento che i pericoli per l’euro, a dispetto del risultato greco, non sono per nulla svaniti. Non è un caso che la Germania abbia subito fatto sapere che, contrariamente a certe anticipazioni, non intende affatto ammorbidire le condizioni poste al governo ellenico dal piano di austerity concordato nei mesi scorsi dalla cosiddetta troika. La situazione continua ad essere delicata e dunque guai a dare l’impressione di voler allentare la linea del rigore finanziario. Da un lato si teme per la sostenibilità del debito spagnolo, da settimane sotto attacco degli speculatori, dall’altro c’è il timore che il contagio possa prima o poi estendersi all’Italia, il cui spread continua a veleggiare pericolosamente intorno a quota 500.
In queste condizioni si comprende perché, già trascorsa l’euforia per lo scampato pericolo ad Atene, si guardi con speranza mista a timore, visti l’esito inconcludente dei precedenti vertici, al summit europeo del prossimo 28 giugno. Nel corso del quale, sperando che la situazione non precipiti nel frattempo, si dovrebbe, più che discutere come si è fatto sinora, decidere sul rafforzamento del sistema creditizio continentale in modo da evitare l’effetto contagio da una banca all’altra e da un paese all’altro, su un piano europeo per la crescita (che dovrebbe essere basato in prevalenza su investimenti nel settore delle infrastrutture, delle reti intelligenti e delle energie rinnovabili) e sull’emissione, da parte degli Stati europei che intendano finanziarsi attraverso il mercato, di obbligazioni a importo e scadenza limitati garantiti dai rispettivi Pil (una versione leggera degli eurobond sinora tanto invisi alla Germania).
A quest’appuntamento il governo italiano, intenzionato a spalleggiare quello francese con l’obiettivo di far cambiare atteggiamento alla Germania, vorrebbe presentarsi forte di un ampio sostegno politico-parlamentare (basterebbe in proposito una mozione votata alle Camera dai principali partiti che ne appoggi la politica in Europa) e potendo vantare l’approvazione della riforma sul lavoro, che però è ancora fonte di polemiche e tensioni tra Pdl e Pd: i berlusconiani non capiscono tanta fretta nell’approvare il provvedimento dopo che il governo ha scelto di non avvalersi dello strumento del decreto legge (come essi avevano suggerito), i democratici chiedono dal canto loro, come condizione per approvare la riforma, una soluzione tempestiva del problema dei cosiddetti esodati. Una partita, quest’ultima, sulla quale grava la mozione individuale di sfiducia contro il ministro Elsa Fornero presentata di comune intesa da Lega e Italia dei Valori e in votazione nei prossimi giorni.
I dieci giorni scarsi che mancano alla riunione del Consiglio europeo sono, non a caso, quelli che, secondo alcune interpretazioni, intenderebbe sfruttare il “partito trasversale del voto anticipato” per mandare a casa il governo – approfittando dell’impervia navigazione parlamentare che l’aspetta e di possibili incidenti o di inedite convergenze che potrebbero prodursi in tali frangenti – e portare così il Paese alle urne il prossimo ottobre.
Una prospettiva, quello dello scioglimento anticipato delle Camere, denunciata da molti osservatori come irresponsabile e piena di incognite, ma che al dunque sembra rappresentare più una minaccia o uno sfogo propagandistico (come le alzate polemiche contro l’euro che ogni tanto si sentono e sulle quali in Italia nessun sinora ha guadagnato un briciolo di consenso) che una possibilità reale. Se nel Pdl, in particolare, ci sono frange che spiegano il calo di preferenze al partito con il sostegno offerto al governo Monti (ma se questo è vero, perché non guadagnano voti nei sondaggi i partiti che a Monti si oppongono?) e dunque insistono per farlo cadere, è anche vero che il primo a non voler la fine anzitempo e traumatica della legislatura è proprio Silvio Berlusconi, la cui parola, sino a prova contraria, continua ad essere Vangelo in quell’area politica.
La strategia di Berlusconi, da molti segnali, sembra quella di lasciar sfogare i membri del gruppo dirigente del Pdl con le primarie autunnali, mettendoli in competizione tra di loro nel maggior numero possibile, per dimostrare che nessuno di essi gode di un ampio seguito e per potersi così ripresentare sulla scena, in veste di unificatore e salvatore del centrodestra, al momento del voto alla sua scadenza naturale nella primavera del 2013.
Il problema allora è un altro. Non un voto anticipato di cui nessuno, per timore di inimicarsi l’opinione pubblico, intende assumersi la responsabilità e da cui non si capisce chi trarrebbe vantaggi, ma un governo che per i prossimi otto-dieci mesi si accontenterà di vivacchiare e di sopravvivere a se stesso, pressato da ogni parte, sempre sul punto di entrare in crisi e costretto a mediare al ribasso su ogni singolo dossier con le forze che strumentalmente (e a giorni alterni) lo sostengono. Il rischio non è dunque la fine repentina dell’esperimento Monti – come ad esempio richiesto dalla Lega come condizione al Pdl per riprendere una collaborazione parlamentare – ma il suo protrarsi nel tempo senza più alcun slancio o alcuna autonomia di indirizzo e di decisione. Esattamente ciò che in questo frangente non serve: né all’Italia né all’Europa.
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