di Alessandro Campi

Carla Bruni, dicono fonti ben informate, è nuovamente incinta. Per l’ex-fotomodella sarebbe il terzo figlio (il secondo con Nicolas Sarkozy, mentre il primo è nato dalla sua precedente relazione con Raphaël Enthoven). Per l’ex-presidente francese sarebbe il quinto (due li ha avuti dalla prima moglie Marie-Dominique, uno dalla seconda, Cécilia).

Sembra gossip e invece è politica. Per meglio dire, si tratta di una notizia di costume, se volete di un pettegolezzo da settimanale rosa, sul quale è però possibile imbastire un ragionamento politico d’ordine generale, utile per fare capire quale sia il male profondo (e storico) che affligge la politica italiana.

Si tratta, in soldoni, di questo. Nella gran parte del mondo, soprattutto nelle democrazie maggiormente consolidate, le carriere politiche, specie quelle al vertice, hanno un inizio ed una fine. Puoi essere, per un periodo più o meno lungo, un uomo potente o potentissimo (come ad esempio il presidente di una grande nazione industrializzata), ma alla fine del mandato conferitoti dagli elettori torni ad essere un cittadino (quasi) normale, torni ad occuparti delle tue abituali mansioni o, se ne hai la capacità, ti inventi un nuovo mestiere.

Magari ti rimane la passione per la politica, che nessuno può toglierti, ma non sei più al centro del potere e della vita istituzionale: qualcun altro lo sarà al tuo posto. Può capitare che i giornali si occupino ancora di te, ma per ragioni private oppure perché è sempre interessante ascoltare l’opinione di chi ha occupato posizioni di grande responsabilità, ma smetti di essere un protagonista del dibattito pubblico. Può persino accadere, anno dopo anno, che tu venga dimenticato, o che magari tu venga sì ricordato, ma alla stregua di un padre nobile o di una rispettabile personalità del passato.

Qualche settimana fa Nicolas Sarkozy ha perso (malamente) la battaglia presidenziale, dopo appena quattro anni trascorsi all’Eliseo ed avendo alle spalle una carriera politica sfolgorante e piena di incarichi prestigiosi. Preso atto del risultato, non ci ha pensato due volte. Ha annunciato il suo ritiro dall’attività politica e il suo ritorno alla professione di avvocato. Magari non lo vedremo patrocinare nelle aule dei tribunali francesi, come sostengono maliziosamente i suoi avversari, ma il massimo che farà sarà l’opinionista, il conferenziere o il consulente. Per il momento, si parla di lui sui giornali come futuro papà. Cosa pensi dell’attuale situazione politica, non interessa a nessuno: e sì che di cose interessanti avrebbe da dirne, vista la sua recente esperienza alla guida della Francia.

Qualche mese fa era toccato allo spagnolo José Luis Rodríguez Zapatero gettare la spugna dopo aver perso le elezioni contro i popolari di Mariano Rajoy. L’inventore del “socialismo arcobaleno” (tutto pacifismo, ecologia e diritti civili) ad appena cinquantuno anni ha lasciato ogni incarico pubblico e di partito e di lui nessuno ha più sentito parlare, al punto che gli stessi media spagnoli si sono chiesti, ad un certo punto, che fine avesse fatto. Qualche giorno fa è ricomparso nelle vesti di conferenziere nella città di Avila: ha avuto un pubblico confronto sui temi dell’etica e del rapporto tra Stato e Chiesa con il cardinale Antonio Canizares. Niente di eclatante, se si considera che per anni Zapatero è stato considerato una bandiera ideologica per l’intera sinistra europea.

Ma lo stesso era capitato, tempo prima, con l’inglese Tony Blair, passato dalla guida dei laburisti e del governo di Sua Maestà a quella di una fondazione che porta il suo nome e che si occupa, in particolare, di dialogo interreligioso; con il socialdemocratico tedesco Gerhard Schröder, che lasciata la cancelleria (che aveva retto dal 1998 al 2005) dopo aver perso con Angela Merkel, si è dedicato ad attività manageriali nel settore dell’energia; e infine con Josè Maria Aznar, capo del governo spagnolo per otto anni (dal 1996 al 2004), divenuto a sua volta conferenziere in giro per il mondo (presiede da anni la Fondazione Faes) e membro dei consigli di amministrazione di alcune importanti società internazionali.

Ed è inutile fare gli esempi dei presidenti americani, ai quali a fine mandato – si chiamino Carter, Bush padre, Clinton o Bush figlio (ma lo stesso varrà prima o poi per Obama) – non rimane altro che sloggiare dalla casa Bianca dopo aver impacchettato i loro effetti personali per dedicarsi chi alle attività benefiche, chi al golf, chi al commercio internazionale, chi alla difesa dell’ambiente o dei diritti delle minoranze, chi alla finanza, chi alle pubbliche relazioni, chi all’insegnamento in qualche prestigioso college. A tutto fuorché alla politica.

Insomma, nei Paesi per così dire normali, nelle democrazie serie o minimamente funzionali, dove la politica è sì una professione, ma retta da regole ferree, la prima delle quali impone un periodico e salutare ricambio dei gruppi dirigenti, soprattutto all’indomani di una sconfitta o dopo aver svolto un incarico di rilievo, non esistono cariche a vita, non ci sono politici che svolgono la loro attività in perpetuo.

Non ci sono dunque personaggi come Berlusconi Silvio, Prodi Romano, Fini Gianfranco, Rutelli Francesco, Casini Pierferdinando, D’Alema Massimo, Bersani Pierluigi, per citare i casi più eclatanti, che qualunque cosa accada – in Italia o nel mondo –, che vincano o perdano le elezioni, che faccia freddo o caldo, che ci sia una guerra o una spaventosa crisi economica, sono sempre lì in attesa di un’altra occasione e di una nuova opportunità per se stessi.

Fare questo discorso – lamentare cioè l’inamovibilità della nostra classe politico-partitico-parlamentare –espone di solito all’accusa di qualunquismo o populismo. Si sostiene che il ricambio a tutti i costi (magari motivato da ragioni generazionali, banalmente legate all’età anagrafica di coloro che partecipano alla vita pubblica) non ha nulla di virtuoso e non è in sé indice di buon funzionamento di una democrazia. Ma si tratta di un argomento strumentale, perché se è vero che la competenza si acquisisce di solito con l’esperienza e il passare degli anni, è anche vero che un’eccessiva permanenza nelle stanze del potere finisce per rendere arroganti e per smorzare ogni slancio ideale, fa perdere di adesione al mondo reale e genera comportamenti corrotti. Oltre a bloccare qualunque forma di dinamismo sociale e a rendere le istituzioni qualcosa di simile ad una proprietà personale di questo o di quello.

Il male italiano, oggi più evidente che mai, è dunque questo. Chi dai noi entra nella sfera del potere pensa di non doverne uscire mai. E ciò accade perché non ci sono regole, formali e consuetudinarie, che lo obblighino a farlo, stabilendo limiti temporali inderogabili per le diverse cariche o rigidi criteri di alternanza nell’esercizio delle medesime o meccanismi autenticamente competitivi ad esempio nella vita interna dei partiti. Manca per di più qualunque sanzione sociale verso comportamenti o atteggiamenti che altrove, sul piano non del diritto scritto ma del semplice senso comune, non sarebbero tollerati.

L’antica regola secondo la quale “chi sbaglia paga” (ovvero “chi è sconfitto deve farsi da parte”) in Italia semplicemente non viene osservata. E dunque si può essere responsabile del dissesto di una banca o di un’azienda o di un’amministrazione pubblica ed essere premiati con un prestigioso incarico (invece di essere sanzionati) oppure si può prendere una batosta alle elezioni e decidere di voler fare egualmente il candidato anche nelle elezioni successive.

Come si vede la diagnosi non è difficile da fare. Il problema, come al solito, è la terapia. Cosa occorre fare per cambiare questa situazione? Sicuri che basti inveire contro la Casta e magari votare Grillo quando saremo chiamati alle urne? E sicuri che la società civile, alla quale spesso ci appella, sia migliore degli oligarchi che apparentemente la opprimono? E se l’Italia fosse un capriccio della storia, un Paese eccentricamente inguaribile, semplicemente destinato a non cambiare mai?

 

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