di Fabio Massimo Nicosia
Negli ultimi giorni sono saliti agli onori delle cronache ripetuti episodi di brutalità della polizia, di atteggiamenti violenti nei confronti dei cittadini senza alcuna giustificazione.
Il più sconcertante è quello che ha visto l’aggressione di alcuni terremotati, rei di aver mosso rilievi al loro menu e a quello, più corposo, di esponenti della protezione civile.
L’occasione è tuttavia grata per consentire una riflessione di ordine più generale sulla collocazione delle forze di polizia in un sistema liberal-democratico, nel quale viga una costituzione e una serie di trattati internazionali sulla tutela dei diritti umani e civili.
Nelle facoltà di giurisprudenza viene insegnato che, come diceva Hans Kelsen, e con lui molti autori fra i quali ricordiamo Norberto Bobbio, l’ordinamento giuridico liberale-costituzionale si snoda su quella che viene definita una gerarchia delle fonti (ossia delle norme), che vede al vertice la costituzione e il diritto internazionale (stante l’autorizzazione prevista dalla costituzione di derogare al principio di sovranità in nome di determinati principi), per poi scendere alla legge, e poi giù giù al diritto giudiziario e amministrativo, che sono o dovrebbero essere meramente applicativi della legge.
Viene a questo punto da chiedersi a che livello si collochi, in questa gerarchia, il diritto di polizia.
Ricordiamo, a tale proposito, che esiste una polizia giudiziaria, al servizio della magistratura, e una polizia amministrativa, al servizio ad esempio degli enti locali, la quale esercita peraltro anche poteri di polizia giudiziaria.
Se ne dovrebbe ricavare che il diritto di polizia, o, per meglio dire, il diritto creato dalla polizia con i propri atti, si collochi al rango più basso della gerarchia formale delle fonti, e tuttavia essa esercita di fatto una primazia nell’ambito di quella che in passato abbiamo chiamato gerarchia funzionale delle fonti.
In pratica la polizia si propone come una sorta di corte di cassazione ambulante, che agisce senza chiedere permesso a nessuno, con atti che, come detto, a volte sconfinano nella brutalità, perché la polizia non applica la “legge” del livello più alto, ma quella del livello più basso (ma funzionalmente supremo) dell’intervento materiale e fisico. Non si è mai visto, ad esempio, che un poliziotto o un carabiniere siano intervenuti spontaneamente per far rispettare qualche principio della carta dei diritti dell’ONU, o della convenzione europea dei diritti dell’uomo o del cittadino.
Mentre per menare le mani non occorre l’autorizzazione di autorità superiori, invece, per ottenere giustizia in nome dei principi supremi occorre rivolgersi al giudice ordinario, più attrezzato culturalmente alla bisogna, anche se occorrono anni per ottenere una sentenza: per ottenere una manganellata sul cranio basta un istante, perché occorre un solo istante perché il milite emetta la sua sentenza passata in giudicato.
Commenti (2)
In risposta a Fabio M. Nicosia sul (presunto) “diritto di polizia” | SentimentalMente
[…] ad un articolo che ho letto sul sito web di IPP (Istituto di Politica) al seguente indirizzo http://www.istitutodipolitica.it/wordpress/2012/07/06/sul-%E2%80%9Cdiritto-di-polizia%E2%80%9D-e-sul… in cui si parla di “diritto di […]
Paolo64
A mio parere una delle cause della violenza delle forze dell` ordine é che non esiste una deterrenza collegata al timore delle sanzioni giuridiche; l` unico modo che hanno di farsi rispettare e fare rispettare le regole é quello di essere fisicamente più forti (violenti) dei facinorosi-Le forze di polizia non sono credibili, dal punto di vista giuridico: se arrestano qualcuno per atti violenti, il giorno dopo é già libero. Nei paesi anglosassoni se colpisci un poliziotto, rimani “al fresco” per un bel po’, da noi i giudici se ne ”fanno un baffo”.