di Alessandro Campi
In Italia il passato non solo non passa, non solo incombe minaccioso sul nostro presente, ma si fa futuro, arriva a proiettare nel domani le sue forme e la sua materia. Ciò che ci aspetta, almeno in politica, è ciò che abbiamo già vissuto. Berlusconi, candidato premier per la prima volta nel 1994, ha infatti deciso che lo sarà anche nel 2013: per la quinta volta, dopo quasi vent’anni dal suo esordio in politica. L’uomo del rinnovamento e del dinamismo, come si era presentato agli italiani conquistandone la fiducia e la simpatia, si è così trasformato, per un tragico paradosso, nel simbolo della conservazione e dell’immobilismo.
Il realtà, la notizia non dovrebbe sorprendere più di tanto. In un Paese dove tutto è fermo, nel quale l’istinto di autoconservazione rappresenta il vero collante ideologico dei suoi gruppi dirigenti (non solo politici), nel quale nessuno di dimette da un incarico pubblico o da un ruolo di responsabilità per favorire il ricambio generazionale se non perché costretto dalla magistratura, dalla malattia o dalla morte, perché proprio il Cavaliere dovrebbe farsi da parte? E non invece, tanto per dire, D’Alema o Fini o Prodi o Casini o Di Pietro, che in alcuni casi vantano, rispetto a lui, una maggiore anzianità politica? Il sacrificio dai posti di potere, per favorire una reale circolazione delle élites, dovrebbe perlomeno essere congiunto e simultaneo.
A Berlusconi, inoltre, non si addice la pensione o il ruolo cosiddetto del padre nobile per una ragione, come tutti sanno, caratteriale ed emotiva. Abituato da sempre al comando assoluto, prima nelle aziende poi nell’arena politica, convinto di essere un miracolo della natura, dotato di una carica energetica in effetti fuori dal comune, malato di protagonismo e incapace di sottrarsi alle luci della ribalta, non gli si può chiedere, solo per banali ragioni d’anagrafe, di mollare la presa, specie se i sondaggi – forse troppo benevoli nei confronti della committenza – sono lì a dimostrare che con Berlusconi in campo, per quanto acciaccato nell’immagine pubblica e oggettivamente avanti con gli anni, il centrodestra avrebbe certamente più voti che con qualunque altro candidato. Se gli elettori del suo campo lo ritengono una risorsa, o comunque l’uomo migliore al quale affidare le loro chances di vittoria, come si può pretendere che se ne privino o che il diretto interessato si sottragga ad una tale responsabilità?
Non c’è da sorprendersi, inoltre, se si pensa che Berlusconi, visto il modo con cui si è sviluppata la sua vicenda nell’ultimo ventennio, è per così dire condannato a restare nel sistema politico, e possibilmente con un ruolo da protagonista, se vuole sopravvivere ai suoi tanti nemici, alcuni dei quali, nella loro ottusa ossessione verso il Cavaliere, non hanno mai rinunciato all’idea di vederlo un giorno mendicare all’angolo di qualche strada. La crisi finanziaria, con il crollo del valori di Borsa, ha reso il suo impero mediatico facilmente attaccabile da investitori ostili e difendibile solo grazie a strumenti di pressione politica. Le sue vicende giudiziarie sono tutt’altro che concluse, anzi se ne aprono continuamente di nuove. Senza contare l’intreccio imprenditoriale-affaristico – legale, per carità – che si è costruito intorno alla sua persona col passare dei decenni e che solo egli, restando nel gioco politico, può continuare a garantire.
C’è poi un aspetto, per così dire sentimental-proprietario, che spiega questa sua tutt’altro che inopinata decisione. Il centrodestra – com’è oggi e nelle sue passate permutazioni – è stato per intero un’invenzione politica di Berlusconi, una sua personale costruzione (anche dal punto di vista economico). Se non cede ad altri, legittimamente, le sue aziende, sulle quali non ha mai smesso di comandare anche quando era capo del governo, perché dovrebbe dismettere o regalare o affidare ad altri (nemmeno suoi parenti) la sua creazione forse meglio riuscita?
Ciò che sorprende, semmai, è che il più felice della decisione di Berlusconi di ricandidarsi sembrerebbe colui che più ha da rimetterci in termini politici. Vale a dire Angelino Alfano, il delfino annunciato, al quale probabilmente non verrà nemmeno concessa la soddisfazione di farsi acclamare leader nel corso di primarie di partito che, a questo punto, non avrebbe alcun senso fare. Segno, questo suo atteggiamento caratterizzato da uno spirito di obbedienza scambiato per lealtà e devozione filiale, che se i vecchi non cedono lo scettro, i giovani dal canto loro non sempre se la sentono di lottare per conquistarlo. Nelle mentalità nazionale, evidentemente, sono da preferire, come strumenti d’ascesa sociale e di carriera, la cooptazione dall’alto e la benevolenza del diretto superiore. Il che forse spiega la simpatia che molti italiani hanno per il pur antipaticissimo Sindaco di Firenze, Matteo Renzi, che ha avuto almeno il coraggio di rompere questa consuetudine all’acquiescenza, questa disponibilità ad attendere il proprio turno con pazienza, che sembra caratterizzare anche le nuove leve.
La candidatura di Berlusconi, naturalmente, pone problemi che vanno oltre le vicende interne del Pdl o l’analisi di costume e che riguardano lo scenario politico-istituzionale a venire. Fatto salvo che ancora nulla sappiamo su come i partiti si schiereranno, con quali nomi e con quali alleanze, in occasione delle elezioni politiche, e dunque molte sorprese potrebbero esserci rispetto ai sondaggi odierni, appare chiaro che Berlusconi ha deciso di scommettere, non potendo più vincere alle urne, su una vittoria politica, egualmente significativa, da incassare nel dopo voto.
Il suo obiettivo è quello di far parte, con diritto di scelta e potere di veto, della maggioranza parlamentare allargata che sosterrà il governo tecnico-politico (sia Monti a guidarlo o meno è a questo punto un dettaglio) al quale i partiti, tutti troppo deboli per immaginare altri scenari o altre formule, si sono rassegnati per la prossima legislatura, anche quelli che attualmente contestano l’esecutivo dei professori. In un governo di ampia coalizione, reso necessario dal perdurare o peggio all’aggravarsi della crisi economica, e alla cui nascita forzata potrebbe contribuire il varo nelle prossime settimane di una legge elettorale di stampo proporzionale concepita proprio per favorire un tale esito, il Cavaliere, lui direttamente e non un suo fedelissimo o seguace, avrebbe ancora molte carte da giocare. Per sé e per la parte politica che gli resterà fedele.
Da qui la scelta di rimettersi in gioco in prima persona: il Grande Vecchio, il combattente indomito, il protagonista di epiche battaglie elettorali, affiancato questa volta da una squadra di giovanissimi candidati che da un lato dovrebbe servire, nella sua idea, a dare l’illusione di un drastico cambiamento e dall’altro gli consentirebbe di liberarsi di dirigenti di partito e parlamentari di carriera che in questi anni e mesi ha dimostrato di non amare affatto.
“Silvio forever”, dunque, che non è solo il titolo di un film: è la storia dell’Italia di ieri, di oggi e (forse) di domani.
Commento (1)
Silvio forever, ovvero perché Berlusconi non può (e non vuole) uscire di scena : Istituto di Politica | Blog di Luigi Di Gregorio
[…] Silvio forever, ovvero perché Berlusconi non può (e non vuole) uscire di scena : Istituto di Polit…. Condividi:TwitterFacebookLinkedInEmailStampaTumblrPinterestDiggRedditStumbleUponLike this:Mi piaceBe the first to like this.Etichettato come: Alfano, Berlusconi, italia, partiti, Pdl, politica, silvio « 10 ways social media is ruining your life – redeyechicago.com […]