di Angelica Stramazzi

L’annuncio del ritorno nell’agone politico di Silvio Berlusconi può essere metaforicamente paragonato ad un sasso gettato con impeto e veemenza nello stagno piuttosto paludoso della politica italiana. A circa diciotto anni dalla sua prima discesa in campo, il Cavaliere si dice nuovamente pronto a vestire i panni del leader di un centrodestra rimasto privo di guida e prematuramente orfano di colui che aveva contribuito a dargli una rappresentanza istituzionale e dunque politica. Nessuna ipotesi di svolgimento di primarie interne al Popolo della Libertà: l’ex premier si impegna in prima persona affinché i moderati del nostro paese cessino di rifugiarsi nell’astensionismo o – addirittura – di votare per i seguaci di Beppe Grillo.

A pagare il dazio di questa inattesa decisione secondo alcuni, ampiamente prevedibile secondo altri, il segretario del Pdl Angelino Alfano, uomo di fiducia del Cavaliere, insignito circa un anno fa dell’arduo compito di guidare il partito nella fase di (eterna) transizione verso il postberlusconismo.

All’ex Guardasigilli spetta infatti ancora un duro lavoro, a prescindere dalla piega che prenderanno i futuri eventi politici, ammesso e non concesso che Silvio Berlusconi torni realmente a candidarsi alle elezioni del 2013. Alfano deve costruire dal nulla qualcosa che non è mai esistito; deve conferire nuova linfa ad una realtà agonizzante, che negli ultimi anni ha visto crescere il numero delle defezioni interne, dimezzando per contro quello delle adesioni volontarie. Di adesioni condizionate invece se ne sono viste parecchie, soprattutto quando il (defunto) Popolo della Libertà ha dovuto fare i conti con la diaspora finiana.

E allora che fare? Dove volgere lo sguardo? A destra, al centro oppure a sinistra, magari contando sulla collaborazione di un Matteo Renzi che sembra piacere molto al popolo del centrodestra e allo stesso Berlusconi. Del resto, a ben riflettere, qualcosa in comune Renzi ed Alfano ce l’hanno. Entrambi infatti stanno risentendo pesantemente dei condizionamenti imposti ai rispettivi partiti di appartenenza dalla linea dettata dal Capo: da un lato la volontà dell’ex premier di scendere nuovamente in campo, dall’altro l’ipotesi ventilata da Pierluigi Bersani di rinviare le primarie a data da destinarsi. In standby dunque la possibilità di confrontarsi in maniera democratica e cristallina; di fronteggiarsi senza insultarsi e di mettere sullo stesso piano due o più visioni di gestione dell’Italia e del Partito Democratico. Perché di gestione del Popolo della Libertà, almeno per ora, ne viene contemplata una sola: quella di Silvio Berlusconi, al netto delle interviste e delle partecipazioni a dibattiti e convegni di Alfano.

In questo scenario, l’unico delfino a non essere stato completamente spiaggiato pare Roberto Maroni, colui che, non troppo tempo fa, pagò duramente il fatto di aver contestato il Senatur, quel padre fondatore di un movimento che è sempre stato anacronistico, concreto e territoriale, salvo poi dimostrarsi tutt’altro. Il neosegretario della Lega Nord ha infatti preteso che il nome di Bossi venisse cancellato dal simbolo del partito. Poca cosa, si potrebbe obiettare; eppure nel deserto politico italiano, anche riuscire ad imporre un tratto di penna su un cognome non troppo gradito può essere equiparato ad un traguardo. Piccolo, effimero, insignificante: ma pur sempre di un traguardo raggiunto si tratta. E Maroni lo sa bene, a tal punto che, una volta eletto nuovo segretario della Lega Nord, si è affrettato a dichiarare che la sua sarà una gestione autonoma, senza tutele. Cosa che invece non ha fatto lo stesso Alfano, che ha sempre pagato la sua dipendenza da colui che lo ha nominato segretario – come non ricordare infatti la conferenza stampa a due in cui si annunciava in pompa magna il varo della riforma dell’architettura istituzionale, in cui Alfano si limitava a fare il controcanto a ciò che energicamente esprimeva il Cavaliere.

Ma stiamo parlando di un’era geologica fa e a breve il Pdl potrebbe tornare a chiamarsi Forza Italia. Un nuovo nome quindi per una creatura che di nuovo non ha più nulla, perché nuova non lo è mai stata, neppure nelle più sincere intenzioni. Per adesso si tratta sul nome; tutto il resto – programmi, alleanze, candidati, idee, sogni e speranze – può attendere.

 

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