di Alessandro Campi
La Spagna è sempre più sull’orlo del baratro: lo hanno candidamente ammesso i suoi governanti. Senza l’aiuto immediato dell’Unione europea, si rischia il fallimento, prima della banche, poi dell’intero sistema economico. In previsione del peggio, per evitare il collasso repentino dei conti pubblici, sono state adottate misure draconiane (a partire dalla riduzione delle tredicesime).
La risposta degli spagnoli al piano “lacrime e sangue” predisposto dal governo non si è fatta attendere: sono immediatamente scesi in piazza a protestare, in alcuni casi con virulenza, in altre in forme persino bizzarre (come i pompieri che si sono messi a nudo dinnanzi ai fotografi). Nelle settimane scorse c’era stato, come si ricorderà, lo sciopero dei minatori, che avevano attraversato in corteo il Paese sino a Madrid, dove al loro arrivo dinnanzi ai palazzi del governo sono scoppiati tafferugli e scontri con la polizia. E prima ancora era scoppiato il movimento, pacifico ma non troppo, degli “indignados”.
Il copione, purtroppo, è quello che già abbiamo visto in Grecia, dove per mesi – dinnanzi all’acuirsi della crisi economica e all’intensificarsi dei sacrifici imposti dall’Europa in cambio degli aiuti – è stato un susseguirsi di manifestazioni (spesso pacifiche, ma non di rado violente), di scioperi selvaggi, di proteste solitarie e collettive spesso nel segno della disperazione (alcuni greci si sono suicidati per strada, in preda allo sconforto).
Insomma, prima in Grecia, adesso in Spagna, il quadro sociale dei Paesi sopraffatti dalla crisi e dalla speculazione, costretti a tirare la cinghia a colpi di tasse sui cittadini e tagli sui conti pubblici, si va facendo sempre più conflittuale e critico, con la gente per le strade che inveisce e urla contro i propri governati e contro quelli europei.
La cosa strana – o curiosa – è che nulla del genere sta invece accadendo in Italia, dove esiste molta rabbia diffusa, dove c’è un malcontento latente, ma dove non si sono ancora verificati episodi violenti o scoppi d’ira collettivi. L’Italia sta affrontando – ormai è chiaro – difficoltà non minori rispetto alla Grecia e alla Spagna, sta anch’essa soffrendo per scelte di politica economica che hanno impoverito i cittadini e messo in ginocchio il sistema delle imprese, ma nonostante ciò nella Penisola esiste come una strana calma. La rassegnazione – o magari, si potrebbe dire, il senso di responsabilità – sembra prevalere sul senso di malessere e sull’indignazione. Se così fosse, gli italiani andrebbero considerati più maturi degli spagnoli e dei greci, che non vogliono arrendersi all’evidenza di una crisi che deve essere accettata con atteggiamento stoico in attesa che i problemi vengano risolti.
Si potrebbe anche dire che la pax italiana, la relativa tranquillità che ancora si respira nel Bel Paese, dipendono dall’esistenza di strutture sociali intermedie (a partire dai sindacati) che, per quanto anch’esse in difficoltà o meno influenti rispetto al passato, sono ancora in grado di canalizzare la protesta sociale verso forme non distruttive dell’ordine civile. Così come si potrebbe buttarla sull’antropologia e sulla storia per sostenere che gli italiani, rispetto ad altri popoli, sono più conformisti e inclini all’obbedienza, più abituati alle angherie e ai soprusi che possano venire loro dallo Stato.
La mia chiave di spiegazione del modo quasi eroico con cui gli italiani stanno sopportando di tutto (a partire da un livello di tassazione che non ha pari al mondo) è invece un’altra. E’ il senso di colpa che ci rende così stranamente quieti, che non ci porta a protestare contro un governo che ci ha imposto – peraltro senza alcun risultato apparente – una micidiale cura da cavallo che non accenna a finire. Hanno tagliato le pensioni e non abbiamo detto nulla. Abbiamo disciplinatamente pagato l’Imu. Abbiamo accettato misure di controllo fiscale degne di uno Stato di polizia. Viviamo nel terrore di Equitalia ma cerchiamo di non darlo a vedere. Altrove insultano banche e banchieri e non diciamo una parola in pubblico, al massimo ci lamentiamo in privato. Ci taglieranno le festività e di sicuro non diremo una parola. Poi forse sarà la volta delle tredicesime e accetteremo – c’è da giurarlo – anche quest’estremo sacrificio.
Perché? Appunto, per senso di colpa, perché siamo intimamente consapevoli del fatto che il disastro al quale si sta cercando ora di riparare (senza frutti) l’abbiamo creato noi stessi, ognuno di noi, gli italiani presi singolarmente, spesso senza nemmeno rendercene conto, anno dopo anno, giorno dopo giorno. Tutti abbiamo avuto e abbiamo una quota di responsabilità per la situazione di dissesto nelle finanze pubbliche. Abbiamo spolpato lo Stato, ne abbiamo tratto tutti un qualche indebito vantaggio, e adesso con chi dovremmo prendercela se non con noi stessi?
Siamo tutti colpevoli, quo quota ovviamente. Quello che non ha mai pagato le tasse e quello che se le è ridotte, diciamo così, di sua iniziativa, tanto prima o poi ci sarebbe stato un condono per qualunque tipo di abuso. Quello che ha avuto una consulenza pubblica che forse non gli spettava o che forse non meritava. Quello che al genitore anziano ha fatto ottenere l’invalidità grazie ad un amico medico compiacente. Quello che – commerciante, barista, panettiere, calzolaio, corniciaio, idraulico – non ha mai emesso uno scontrino o una fattura, o ne ha emessi talmente pochi durante l’anno da risultare al fisco quasi un indigente. Quello che lavora alla Asl, o che ha il cugino usciere al ministero, o la sorella impiegata alla Comunità montana, o il fratello autista alla municipalizzata, o la cognata cassiera in banca – e tutti sono stati assunti, non per merito o titoli, ma perché un politico o un sindacalista ha dato loro la classica spintarella.
E poi c’è il professore d’università che ha fatto vincere il concorso da ricercatore al figlio o alla nipote, quello che è andato in pensione con 15 anni sei mesi e un giorno di contributi e adesso fa il rappresentante di commercio, come un altro lavoro, rigorosamente in nero, fa anche l’operaio finito da anni in cassa integrazione. E poi ci sono il medico e l’avvocato che pretendono in nero metà del compenso dai loro clienti, il commercialista che vive di perizie grazie alle giuste amicizie in tribunale, il geometra che sa chi ungere all’ufficio edilizia del Comune, ecc. ecc.
L’Italia è stata, per decenni, il circo che abbiamo appena abbozzato. Un paese nel quale tutti si sono fatti gli affari proprio alle spalle del prossimo, nella convinzione soggettiva di essere furbi, di non star facendo in fondo nulla di male, di fare quello che in fondo fanno tutti, e via giustificando se stessi. Sino a che il conto di tanto scialo con i soldi dello Stato (cioè nostri) ci è stato presentato e lo abbiamo scoperto non salato, ma salatissimo.
Ecco perché gli italiani non scendono in piazza in massa a spaccare le vetrine o a insultare il prossimo, a darsi fuoco o ad assaltare gli edifici pubblici. Se lo facessero, da un lato si vergognerebbero come cani, dall’altro gli verrebbe anche un po’ da ridere. Non è il senso di responsabilità a trattenere la nostra rabbia, ma quel che ci resta di senso della decenza.
Commenti (6)
Adelio Fioritto
Non condivido.
Gli italiani non scendono in piazza perché persiste una situazione di rassegnazione verso tutta la classe politica o riconducibile ad essa tale per cui si è sfiduciati a tal punto da supporre che qualsiasi iniziativa possa essere intrapresa, poco o nulla cambierà.
C’è stato un referendum sui finanziamenti pubblici… e non è stato attuato.
C’è una chiara espressione popolare di modifica della legge elettorale… e la si continua a rimandare.
Ci sono migliaia di “partecipanti attivi”, tesserati o simpatizzanti, di qualsiasi schieramento politico di sorta, poco contano le etichette, che nella migliore delle ipotesi vengono puntualmente sentiti ma non ascoltati, ricevendo puntualmente come risposta un “sì vedrà” o “non è questo il tempo”.
Si ha la consapevolezza che poco si ha da discutere con chi siede in parlamento da “nominato” in quanto non deve rispondere delle proprie azioni ad un proprio elettorato, ma solo ed esclusivamente al proprio leader.
Gli italiani al momento “attendono”, sono consapevoli dei sacrifici richiesti e li accettano per il semplice motivo che il timore di una vera rivoluzione condurrebbe ad una situazione tanto critica quanto precaria tale per cui la propria posizione peggiorerebbe di sicuro, almeno nell’immediato presente, ponendoli nella situazione paradossale di blocco psicologico.
Ugo
La spiegazione che Lei da della presunta indifferenza degli Italiani agli effetti della cosidetta crisi economica è, a mio parere, condivisibile se ci si limita ad una lettura superficiale, senza considerare le vere cause che sono, per così dire, strutturali.
Basterebbe pensare al peso della spesa pubblica, nonchè all’apparato pubblico, non solo inefficiente e costoso oltre misura, ma indicativo di una situazione di privilegio, di passività, di tutele e garanzie insopportabili. La gente comune identifica questa situazione con il sistema in generale e, forse, ritiene che ogni reazione sia inutile per accertata impotenza verso il potere.
Loretta
ma quale vantaggio ne avrei tratto io? non è senso di colpa è senso di impotenza – DEPRESSIONE – l’Italia è diventata uno stato depresso, non abbiamo più linfa da succhiare. L’abbiamop visto tutti: il banchiere Monti sta facendo i compiti e quando ha provato a toccare gli stipendi d’oro, l’hanno zittito; “I privilegi della casta non si toccano, stai buono al posto tuo e mungi quella massa di pecoroni!”
Ma se Dio vuole i pecoroni non ce la fanno più e come per i NO TAV si organizzeranno e andranno sotto i palazi di potere a chiere la RESTAURAZIONE DELLA DEMOCRAZIA… istituzione scomparsa nel nostro paese appena dopo la seconda guerra mondiale. Dobbiamo scendere in piazza tutti, pacificamente, informando le altre persone delle nefandezze che stanno perpretando quei parassiti che ci governano.
Chiara Moroni
Caro Alessandro,
la descrizione che fai della società italiana e’ semplicemente realistica, tutti noi la conosciamo e nei abbiamo accettato le logiche, o perché tanto “così fan tutti” o più semplicemente perché non ne denunciamo pubblicamente le dinamiche perverse, salvo lamentarsi in privato, ma magari solo perché, per ragioni diverse, si rimane fuori dalla spartizione di ruoli, soldi e benefici vari. Chi nega questa realtà o lo fa in mala fede o si fa inconsapevole esempio del peggior male che affligge la nostra società: la deresponsabilizzazione pubblica e privata di ogni azione e di ogni prassi.
Fintanto che noi cittadini continueremo a autoassolverci in quanto vittime impotenti di poteri che ci sovrastano e tiranneggiano, l’Italia non potrà diventare un Paese consapevolmente maturo. Basta con la logica del “piove, governo ladro”!
Perché gli italiani non scendono in piazza contro la crisi? : Istituto di Politica | Blog di Luigi Di Gregorio
[…] Perché gli italiani non scendono in piazza contro la crisi? : Istituto di Politica. Condividi:TwitterFacebookLinkedInEmailStampaTumblrPinterestDiggRedditStumbleUponLike this:Mi piaceBe the first to like this.Etichettato come: campi, crisi, grecia, istituto di politica, italia, spagna, spread « Google Updates Earth For iOS With More 3D, Adds Default City Location To PC Maps […]
pietro
Si puo dire tutto e l’incontrariodi tutto si racchiude in 3 parole siamo dei coglioni