di Montesquieu*

Capita – inopinatamente – di dover parlare del centro, a proposito della politica italiana. E capita di parlarne con accenti in parte nuovi: alla vigilia del voto più difficile, mentre la tenuta dello stato è sottoposta a prove di resistenza sotto sforzo, nella prospettiva di ancora sconosciute difficoltà per la maggioranza delle famiglie, tra fantasiosi creativi che mettono allo studio una nuova generazione di specchietti per le allodole per i troppi creduloni, e tra abituali combinazioni politiche che si dissolvono, il centro potrebbe essere la sorprendente sorpresa positiva. E, maggiore novità, non solo per sé.

Nelle rare democrazie che ne consentono una decorosa esistenza (non la Francia, non il Regno unito, non gli Stati Uniti, per capirci), il centro può normalmente definirsi il luogo del grigio: colore che si ottiene attingendo dal bianco e dal nero dei due schieramenti principali ed opposti, badando a custodirne la reciproca incomunicabilità, ammiccando con equilibrio alternato all’uno e all’altro. Una posizione geometrica, che diventa politica all’indomani delle elezioni, quando un vincitore non autosufficiente sia costretto a recarsi sul mercato, per l’appunto, dell’offerta politica.

Una collocazione, quindi, per forza di cose ambigua, ma anche una tradizionale specialità del nostro sistema, che combina una certa vocazione trasformistica con meccanismi istituzionali fatti su misura per metterla a frutto. Conosciuto nella prima parte della repubblica come fenomeno interno alla maggioranza di governo obbligata, per assenza di alternative, addirittura interno a singoli partiti, è riuscito a farsi largo nella seconda, quando sembrava spacciato a causa dell’introduzione di un sistema bipolare e di un meccanismo elettorale maggioritario. Così, almeno, lo aveva immaginato con entusiasmo la grande maggioranza degli italiani.

Se oggi se ne può parlare in termini diversi rispetto al tradizionale luogo delle convenienze, lo si deve ad alcuni fattori. Innanzitutto, c’è centro e centro, anche se un giudizio sostanzialmente benevolo non ne esclude nessuno, neanche quello che risponde più degli altri alla descrizione iniziale e consueta. Potremmo parlare di una riproduzione miniaturizzata di un centro centrodestra, di un centro centro e di un centro centrosinistra.

Il primo nasce dall’esperienza prima esaltante, poi soffocata, impressa alla propria posizione politica dal presidente della camera, fin troppo nota per ritornarvi, se non incidentalmente. A questa destra diventata, per forza di cose e di compatibilità, un pezzo del centro, si devono le più nitide ed equilibrate interpretazioni delle esigenze di laicità, di legalità, di accoglienza, di difesa istituzionale del parlamento, in perfetta solitudine quest’ultima, pur essendo il nostro un sistema bicamerale con due presidenti. Posizioni coraggiose nell’ambiente politico praticato, come si è ben visto, poi d’un tratto abbandonate, con la rinunzia alla grande e meritata rendita politica che, specie in tempi di antipolitica, avrebbero portato con sé. Oggi di questa esperienza resta, accanto alla stordita memoria, soprattutto l’apparizione nella politica e attorno ad essa di un paio di personaggi che in parte compensano la desolante mediocrità del panorama politico, e la fanno giudicare, l’esperienza stessa, comunque utile.

Un professore di Perugia, Alessandro Campi, animatore della fase esaltante ed estraneo a quella successiva, e l’attuale capogruppo alla camera, Benedetto Della Vedova, portatore della propria formazione radicale accanto alle qualità personali. Un lascito da non disperdere. Riconosciuto il fondamentale e consapevole contributo dell’esperienza finiana alla interruzione dell’esperienza berlusconiana, resta da esplorarne l’apertura in termini di alleanze, in un momento in cui le posizioni ideologiche debbono lasciare il campo alla capacità di coesione sui temi della crisi, non solo economica, ed al rigetto di nuove avventure.

La sinistra del centro: nasce dalla fuoriuscita dal Partito democratico di un suo fondatore, senza il corollario, consueto a tutte o quasi le scissioni, di una eccessiva immedesimazione nelle logiche utilitaristiche del nuovo approdo. Come è dimostrato dal buon viso fatto all’esperimento di relazione politica più lungimirante e spregiudicato di questi tempi di piccoli, minuziosi, opportunistici passi, la nascita dell’asse Pisapia-Tabacci. Un esponente equilibrato della sinistra detta radicale, e un centrista per caso, o per necessità, ma come nessuno alternativo al modello dell’uomo di centro italiano. Provvisto di spiccata vocazione programmatica, di concretezza, privo del germe molle della moderatezza e del politicismo, laico quanto basta, oggetto di stima diffusa fino ad essere generalizzata. L’unico ad avere l’ardimento di parlare di sinistra centro, vero test del coraggio del riformatore italiano.

Questo schema si ripropone a livello nazionale, e finisce dritto fin dentro le primarie. O questo non è centro, o il centro ha lasciato per strada le sue ambiguità. A proposito delle quali, si deve passare al corpaccione del centro. In materia di utilità marginali, le dimensioni sono relative. Oggi si devono segnalare alcune novità, dalla quasi – tenue residuo di ambiguità – dichiarata scelta preelettorale delle alleanze, peraltro favorita se non resa necessaria dalla confusione del centrodestra, alla piena comprensione delle priorità del paese economiche ed istituzionali, all’abbandono di certe posizioni in tema di giustizia e, auspicabilmente, di questioni etiche.

Rimane l’incertezza sulla disponibilità a non esaurire lo sguardo a sinistra laddove finisce il Partito democratico: ma qualche abilità il segretario del Partito democratico dovrà pur dimostrarla, traghettando insieme la capra centrista e i cavoli della sinistra sinistra. Resterebbe il centro virtuale, la bolla montezemoliana, lungi dal configurarsi come qualcosa di concreto, di cui ci si potrà occupare quando il coraggio della discesa in campo dovesse prevalere sulle paure che la frenano, e che non sono il migliore sintomo dell’utilità di un nuovo concorrente.

* Montesquieu è il nome de plume di un alto funzionario dello Stato, che qui interviene nella sua veste di analista politico. L’articolo è apparso su “Europa” del 25 luglio 2012.

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