di Fabio Polese
C’è una guerra che viene definita di «bassa intensità» ma che è, a tutti gli effetti, il conflitto più lungo al mondo. Nella giungla della Birmania Orientale, al confine con la Thailandia, tra le montagne e i paesaggi ancora incontaminati dalla società moderna, vive il popolo Karen, che dal 1949 è in lotta per la propria sopravvivenza fisica e culturale. I nemici, quelli che vogliono la loro estinzione, erano e sono i militari del regime di Rangoon, ora governato da quello che la stampa occidentale ama chiamare il «Signor Pulito», Thein Sein, il nuovo Presidente birmano.
Nerdah Mya, colonnello dell’Esercito Nazionale di Liberazione Karen che ha studiato negli Stati Uniti ed è tornato per aiutare il suo popolo, mentre stiamo marciando dentro la fitta vegetazione per raggiungere un villaggio nel distretto di Dooplaya, mi racconta che «se i Karen non si fossero fin qui battuti, oggi non si potrebbe più parlare dei Karen, non esisterebbero più. Il regime birmano una volta ha dichiarato che in futuro per poter vedere un Karen si dovrà andare in un museo. Per loro noi abbiamo una sola possibilità di sopravvivere: venderci al regime, accettare di diventare dei sudditi. Ma vedete, mio padre – Boeh Mya, leggendario eroe della resistenza Karen deceduto nel dicembre 2006 – mi ha sempre detto una cosa che non dimenticherò mai: “E’ meglio vivere un solo giorno da uomo libero piuttosto che cento anni da schiavo”. Ecco, la nostra lotta non può fermarsi. Non possono sconfiggerci. La nostra libertà è nella testa, nel cuore, nelle idee e nel sangue».
L’esercito birmano da anni attacca i villaggi Karen e porta il terrore attraverso l’uso sistematico dello stupro e della schiavitù. Chi rimane vivo agli attacchi – mi raccontano gli abitanti di Ookray Khee – viene preso e viene usato come scudo umano. Mentre scatto qualche foto e cerco di capire lo stile di vita di questo popolo, è impossibile non notare il grande numero di persone che sono rimaste con una gamba sola a causa delle mine anti-uomo disseminate in tutta la zona. Una recente denuncia raccolta dall’associazione per la promozione dei diritti umani «Human Rights Watch», racconta una triste realtà: «Negli ultimi dieci anni solo nello Stato Karen, nel nord del Paese, decine di persone sono state uccise e ferite da ordigni esplosivi nascosti nei campi o interrati nelle strade e nei sentieri della giungla». Moe Lho, un volontario dell’Esercito di liberazione Karen, di circa trent’anni, che proteggeva il villaggio di Boe Way Hta – mi raccontano altri soldati – ha calpestato una mina che gli ha tranciato una gamba proprio qualche giorno fa e, prima che potessimo aiutarlo, si è puntato l’arma addosso e ha fatto fuoco. Non poteva vivere al pensiero di non poter combattere per aiutare il suo popolo.
Mi sto preparando per partire alla volta del villaggio di Kaw La Mee; davanti a me c’è Shan Lee, un volontario dell’Esercito di liberazione, con il quale, in questi giorni, ho avuto modo di parlare spesso. Shan Lee, dal viso pulito e buono, è sempre disponibile e pronto ad aiutare tutti. La sua storia è particolare: ha venticinque anni, suo padre è di etnia Shan – una delle tante che vivono in Birmania – ed è un ufficiale dell’esercito; sua madre è di etnia Karen e suo fratello, dopo gli studi a Rangoon, è entrato a far parte dell’esercito birmano. Ma lui, mi racconta, ha fatto la sua scelta dieci anni fa, arruolandosi come volontario dell’esercito «per aiutare il popolo martoriato dei Karen». Gli domando come si comporterebbe nel caso si trovasse davanti suo fratello in uno scontro a fuoco. La risposta è secca: «L’esercito di cui fa parte è il nostro nemico».
In queste zone di guerra, dal 2001, è attiva la «Comunità Solidarista Popoli», una Onlus italiana che, in undici anni di attività, ha costruito scuole e cliniche mobili, villaggi e piantagioni di riso; ha fornito materiale medico e agricolo e organizza, ogni anno, missioni con medici italiani che entrano illegalmente per aiutare e curare gli abitanti dei villaggi. «I nostri medici – dichiarano esponenti di «Popoli» – compiono ogni anno diverse rischiose missioni per curare pazienti che altrimenti non godrebbero di nessuna assistenza. Le nostre cliniche coprono un bacino di utenza di circa 15.000 persone appartenenti all’etnia Karen minacciata dal genocidio del governo birmano. Le scuole elementari consentono ai bambini Karen di mantenere la propria lingua e di apprendere la storia del popolo a cui appartengono». Un infermiere dell’Esercito di Liberazione, Bawa, mi dice che l’aiuto di «Popoli» è fondamentale per la loro sopravvivenza.
In questi giorni si parla di negoziati di pace e di riforme democratiche. Il nuovo presidente Thein Sein vorrebbe far ripartire l’economia del Paese aprendo contatti con l’Occidente anche sotto la facciata di un cambiamento dovuto all’entrata nel Parlamento birmano del Premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi. Quello, però, che non viene raccontato è che, su più fronti, continuano i combattimenti e i rifornimenti degli avamposti birmani dove dovrebbe esserci il presunto «cessate il fuoco». Continuano le deportazioni di interi villaggi e le violenze contro i civili. E ancora, nel silenzio, non viene detto che la Birmania «democratica» detiene il primato nella produzione di anfetamine ed è seconda, dopo l’Afghanistan, per la produzione d’oppio. Proprio in questo scenario alcune grandi multinazionali stanno facendo a gara per appropriarsi commesse milionarie.
Commento (1)
Fabio Polese » Birmania, la silenziosa guerra dei Karen non si ferma
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