di Luca Marfé* ed Emanuele Schibotto**

Aprendo la seduta del comitato direttivo della Cgil di Napoli, il segretario generale della Camera del Lavoro metropolitana di Napoli, Federico Libertino, ha riportato i riflettori dei media nazionali sul principale problema che attanaglia l’Italia: il divario Nord-Sud. «La crisi che ha investito il nostro Paese ha creato una frattura ancora più marcata tra le regioni settentrionali e quelle meridionali – ha dichiarato Libertino – ed il non aver puntato sulla politica industriale non ha fatto altro che arrestare la sviluppo del Mezzogiorno, la cui crescita è dello 0% […] Continuando così, ci vorrebbero 400 anni per recuperare un tale svantaggio». Una vera e propria emergenza nazionale, poiché in uno scenario sempre più diviso dal punto di vista socio-economico, tutto diventa più difficile. La riduzione di questo divario, dunque, dovrebbe essere la preoccupazione numero uno per gli esponenti politici.

Abbiamo recentemente pubblicato un libro (1) che si pone di analizzare e spiegare proprio le origini del divario e le relative implicazioni sulla competitività odierna del nostro Sistema-Paese. Un problema, quello della “questione meridionale”, che è stato oscurato negli ultimi vent’anni dalla “questione settentrionale” e dalle istanze portate dalla Lega Nord, come sottolinea Alessandro Campi nella prefazione.

Il divario era un problema che veniva avvertito già agli albori del Regno, ma che in realtà ha origini ben più antiche, risalenti nello specifico ai 10 anni precedenti all’unificazione nazionale.

Le regioni del Nord presentavano dazi doganali che oscillavano mediamente intorno al 10%, un dato decisamente basso per quell’epoca, mentre nel Mezzogiorno tali percentuali raggiungevano la soglia del 100%. In secondo luogo, l’élite liberale si mosse nelle aree settentrionali a favore di un’importante accelerazione in termini di sviluppo nel campo delle infrastrutture. Un esempio significativo è offerto da un breve studio del settore ferroviario: l’espansione della rete consentì in un solo decennio al Piemonte di detenere metà del chilometraggio dell’intera penisola e di raggiungere Parigi in un solo giorno di viaggio. Anche l’agricoltura è stata teatro di una crescita notevole, resa possibile grazie ad una serie di apprezzabili interventi di irrigazione e bonifica di diverse porzioni del territorio.

Il Governo Borbonico si distingueva invece per un più tradizionale modello aristocratico. Fondato su livelli di imposizione fiscale e di spesa per le infrastrutture notevolmente più bassi, muoveva i propri passi lungo il sentiero di una politica economica paternalista. La produzione interna era protetta da dazi per l’importazione delle merci estremamente elevati ed il prezzo degli alimenti era controllato e regolamentato all’interno di un preciso perimetro giuridico. La stessa sfera della proprietà terriera incorporava delle componenti che poco o nulla avevano a che vedere con il concetto di modernizzazione. Pochi possidenti continuavano a gestire la terra attraverso il meccanismo del latifondo in uno scenario che si distingueva per la presenza di diritti feudali “di decima” e di fruizione pubblica dei terreni comunali. Un certo sentimento di distacco distingueva l’atteggiamento di questi ricchi aristocratici che trovavano disdicevole occuparsi delle faccende relative ai loro poderi. Questi i motivi per cui si rivelò scarsa, se non addirittura assente, la spinta ad effettuare investimenti che potessero rendere più redditizie le tecniche produttive, che rimasero invece ancorate ad idee meno innovative.

A corollario di queste riflessioni e per poter comprendere in maniera corretta la situazione del Mezzogiorno è necessario infine concentrarsi sull’idea che il Regno delle Due Sicilie si presentava al proprio stesso interno come una realtà assai poco uniforme. Napoli era la terza città più popolosa d’Europa e la sua provincia era assolutamente in grado di competere con quelle più sviluppate del nord-ovest del Paese. Completamente diverso era invece lo scenario in aree estremamente più povere, come l’entroterra calabrese o lucano.

L’Unità nazionale, pur rappresentando un momento di straordinaria ed indiscutibile importanza, non riuscì a garantire un più elevato livello di equilibrio sociale, culturale ed economico tra due diversi contesti che viceversa andavano delineandosi in maniera sempre più netta nel quadro della penisola. Fino ad arrivare ad oggi, con la questione non soltanto ancora aperta, ma addirittura aggravatasi. Ciononostante, è bene ricordare che l’Italia tutta è un Paese moderno nel quale non possono più trovare posizioni di primo piano quelle politiche assistenzialiste che, nel corso dei decenni, non soltanto non hanno sortito gli effetti desiderati, ma che, paradossalmente, hanno finito con l’alimentare la spirale di inefficienza che è auspicabile arginare una volta per tutte.

Il Sud: una colossale risorsa stretta nella morsa di alcune note difficoltà, cui sono però direttamente collegati cospicui margini di sviluppo. Un potenziale straordinario che potrebbe davvero fare la differenza. Da parte del problema a parte della soluzione.

 

( 1) Luca Marfé, Emanuele Schibotto, Il Divario: Globalizzazione, Emigrazione, Suddivisione, Prefazione di Alessandro Campi, Nuova Cultura Editore, Roma, 2012

* Luca Marfé è professore di cultura e storia italiana presso la “Universidad Central de Venezuela”, incaricato e docente presso l’Istituto Italiano di Cultura di Caracas.

** Emanuele Schibotto, Dottorando di ricerca in geopolitica economica presso l’Università Marconi e Coordinatore del Centro Studi di Geopolitica e Relazioni Internazionali Equilibri.net.