di Danilo Breschi
Hobsbawm con i Beatles? “Ma che c’azzeccano!”, direbbe quello là. È tutta questione di coincidenza di date, di ricorrenze. Spesso gli anniversari sono presi a pretesto per tirare le somme, fare un bilancio di un periodo, di un’epoca storica. Proprio così intendiamo fare con questo articolo, tra il serio e il faceto, e cercando tanto più il serio quanto più faceto è l’abbinamento di nomi e date che qui di seguito proponiamo.
Eric John Hobsbawm, celebre storico inglese, è morto poche settimane fa, il 1° ottobre, novantacinquenne. In quegli stessi giorni si è celebrato il cinquantesimo anniversario dell’uscita del primo singolo dei Beatles, Love me do, apparso nei negozi il 5 ottobre del 1962. Nel giro di pochi anni, singolo dopo singolo, album dopo album, successo dopo successo, i quattro ragazzi di Liverpool sconvolsero il mondo della musica, e non solo, contribuendo a dar forma e sostanza ad una vera e propria rivoluzione nei costumi e nelle mentalità. Firmarono così la colonna sonora di quell’“età dell’oro” di cui Hobsbawm ha parlato nel libro che lo ha reso celebre ben oltre i confini dell’accademia e degli specialisti. Si riferiva proprio ai venticinque anni successivi al secondo conflitto mondiale.
Il secolo breve: così recita il titolo di quel libro nella traduzione italiana. Una scelta felice dell’editore, che ha invertito titolo e sottotitolo originali. In inglese, infatti, il volume, uscito nel 1994, si intitolava The Age of Extremis, mentre The Short Twentieth Century, 1914-1991 era il sottotitolo. Si trattava di un grande affresco storico sull’età contemporanea, sostanzialmente l’epilogo di una tetralogia che era partita dalle “rivoluzioni borghesi” di fine Settecento e che Hobsbawm riteneva di dover terminare con il 1991, ovvero con la dissoluzione dell’impero sovietico. Come a dire che dal 1789 al 1989 le ideologie politiche e la loro forza trainante avevano segnato in modo indelebile la storia, prima europea, poi mondiale, finendo per costituire un blocco storico omogeneo e autonomo per caratteristiche sue proprie.
Quel titolo è diventato quasi una formula, un mantra da ripetere in ogni consesso che richieda lo sfoggio di qualche briciolo di cultura storica. È una formula non solo accattivante, ma anche utile a suggerirci qualche riflessione sul ventennio successivo che abbiamo appena trascorso dacché la bandiera dell’Urss è stata ammainata. Da storico marxista, più o meno ortodosso, più o meno critico, comunque sempre affascinato dalla Rivoluzione d’Ottobre, Hobsbawm aveva ben chiaro che qualcosa era definitivamente tramontato per l’Europa, ben prima della conclusione del ventesimo secolo. E ripensare ai Beatles, ripercorrerne la storia, tutta concentrata in poco più poco meno di sette anni, dal 1962 al 1970, ci conferma che un’età dell’oro l’Europa l’ha conosciuta davvero e l’ha perduta davvero. E non certo per il comunismo realizzato, il cui unico merito, caso mai, sarebbe stato quello di aver svolto la funzione di stimolo per l’evoluzione dei sistemi politici occidentali in senso più favorevole alle classi lavoratrici.
Il Welfare State sarebbe stato la risposta pragmatica e liberalconservatrice ad una sfida proveniente dall’Urss sui temi dell’eguaglianza e della giustizia sociale. Questa è la nota tesi di Hobsbawm, molto controversa e molto discussa negli anni successivi all’uscita del Secolo breve. Noi ci limitiamo ad aggiungere un’altra tesi e al blocco sovietico attribuiamo un’altra funzione storica: l’aver bloccato quella globalizzazione dei popoli e dei mercati che oggi tanti problemi sta creando soprattutto a noi europei, e italiani in particolare.
Cosa ci dicono oggi i Beatles? Ci dicono anzitutto che tra fine anni Cinquanta e primi anni Sessanta l’Europa, ma anche gli Stati Uniti, l’Occidente intero insomma, ha vissuto una sorta di nuovo “rinascimento”, quanto meno ha provato la sensazione di un nuovo inizio. Vuoi perché al di qua dell’Atlantico vi era stato il doppio suicidio collettivo di due carneficine continentali, vuoi perché al di là dell’Atlantico vi era stata la Grande Depressione per una crisi economica e sociale che forse gli Usa superarono definitivamente solo entrando nel secondo atto di quella stessa guerra civile europea.
Celebrando l’anniversario beatlesiano, Michele Serra ha recentemente osservato come “la cosa più difficile da spiegare (a chi non c’era) è che in quegli anni, gli anni dei Beatles, quasi tutto era nuovo, e anche quando non lo era lo sembrava”. Ecco, perfetto! È invece una sensazione di plumbeo e paralizzante déjà vu quella che va oggi diffondendosi tra le generazioni di un’Europa mai come oggi “vecchio continente”. Come se tutto fosse stato già detto e già fatto, e non si riuscisse più a “pensarla nuova”, in nessun ambito della vita sociale e politica, individuale e soprattutto collettiva.
Per chi si aggiri tra le pagine dei quotidiani nazionali e locali, come tra le strade di Roma o Milano, Firenze o Napoli, netta sarà la sensazione di vivere in un’Italia che non è un paese per giovani, o per spiriti giovani. Al più è terra ospitale per atteggiamenti giovanilistici, che con lo spirito giovanile hanno poco da spartire. Quindi stiamo vivendo un’epoca, noi europei forse, noi italiani senz’altro, che è l’esatto opposto degli anni d’oro dei Beatles (e dei Rolling Stones). In questo modo, dirà qualcuno, per lo meno non rischiamo di scivolare nelle ebbrezze utopistiche e violente che hanno lastricato la via delle buone intenzioni degli anni Sessanta. Una considerazione del genere ci pare però una ben magra consolazione se l’alternativa è la stagnazione, morale e intellettuale, ancor prima che economica e materiale.
Nella storia dei Fab Four di Liverpool è racchiuso in meravigliosa sintesi il canto del cigno europeo e occidentale. È stato scritto che “tutto quello che riguarda i Beatles è un fenomeno del tutto nuovo sulla scena occidentale, non solo le proporzioni del successo, ma anche le modalità in cui questo successo si è sviluppato, creando una serie di nuove strade che da lì in poi diventeranno i nuovi standard nell’industria musicale”. Quella band, prima di ogni altra, fu “apripista per un nuovo universo in cui la musica diventa l’elemento centrale, capace di catalizzare intorno a sé comportamenti, stili di vita, moda”.
Una relazione tra musica e politica che lo stesso Hobsbawm aveva ben colto e ricostruito anche nel suo Secolo breve: “Gli sviluppi politici più impressionanti, particolarmente negli anni ’60 e ’70, facevano la fortuna dell’industria discografica”. Che qualcosa sia finito per sempre è sensazione forte, anche se andiamo oltre il caso particolare di un’industria musicale in grave affanno. Se guardiamo all’Italia è evidente che stiamo vivendo un’epoca contrassegnata da impotenza creativa, e da una mancanza di entusiasmo che sta contaminando anche le generazioni più giovani, bloccate da gerontocrazie che nel nostro Paese sono davvero onnipresenti e inestirpabili. La musica che gira attorno oggidì non lascia tracce, tanto meno modifica le menti e i costumi di ragazzi e ragazze. Solo stanca ripetizione di Sixties in via di esaurimento.
Questa stessa crisi potrebbe però anche suggerirci che non di fine si tratta, ma di cambiamento. Stiamo forse transitando verso un sistema politico e sociale che non sarà più spiegato a sufficienza da termini come democrazia o capitalismo, libertà o benessere, tutte dimensioni il cui culmine, nei pregi e nei difetti, venne toccato, o solo sfiorato, negli anni Sessanta, per allontanarsene progressivamente dai Settanta in poi.
Che quel che fu la musica nei Sixties sarà l’Information and Communication Technology (ICT) negli anni dieci del terzo millennio? Dal rapporto musica-politica a quello informatica-politica? Difficile dirlo, certo l’ICT non sembrerebbe trasmettere lo stesso entusiasmo bacchico di Twist and shout, o lo spirito canzonatorio di Yellow submarine, ma forse non tutto è discontinuità e rottura, e un’epoca è figlia dell’altra. Come a dire che il nostro presente era forse inscritto in quel passato, ma anche che quel passato ha lasciato tracce nell’oggi, e si tratterebbe solo di riscoprirle. E di capire in che misura vale la pena recuperarle.
Noi europei siamo più freddi oggi che ai tempi della Guerra Fredda. Se è solo questione di temperatura, potremmo anche riscaldarci con nuovi soli. Ma resta in ogni caso difficile contestare quanto Hobsbawm ha dichiarato nel maggio scorso, nell’ultima intervista rilasciata ad un settimanale italiano. Alla domanda se la crisi in corso è differente da quelle precedenti, lo storico inglese ha così risposto: “Sì. Perché è legata a uno spostamento del centro di gravità del Pianeta: dai vecchi Paesi capitalisti verso nazioni emergenti. Dall’Atlantico verso l’Oceano Indiano e il Pacifico. Se negli anni Trenta tutto il mondo era in crisi, ad eccezione dell’Urss, oggi la situazione è diversa. L’impatto è differente in Europa rispetto ai Paesi del Bric: Brasile, Russia, Cina, India”. E c’è poi un’“altra differenza, rispetto al passato: nonostante la gravità della crisi, l’economia mondiale continua a crescere. Però solo nelle aree fuori dall’Occidente”.
Hobsbawm alla fine ha cercato di rivalutare il patrimonio politico e intellettuale del marxismo (vedi il suo ultimo libro: Cambiare il mondo, Rizzoli 2011), e così ha forse impedito a se stesso di dotarsi di strumenti di lettura adeguati ai tempi che cambiano. The Times They Are a Changin’, cantava Bob Dylan, e chissà se il vento soffierà ancora sulle terre desolate d’Europa. Per dire che la storia potremmo ancora scriverla anche dalle nostre parti, volendo. Per chi ama gli anniversari, proprio ad ottobre ricorre un altro cinquantenario, quello del Concilio Vaticano II. E allora, per chiudere con un’ultima facezia: speriamo che Dio ce la mandi buona!