di Andrea Colasuonno

Nel corso di quasi tutta la storia dell’Italia unita, la questione meridionale è sempre stata avvertita come una problematica politica urgente. La gran parte dei partiti nazionali, almeno fino alla cessazione delle attività dell’intervento straordinario nel 1992, ha sempre dibattuto circa le vie da adottare per una sua risoluzione tenendo il problema al centro delle proprie “agende”; e d’altra parte i problemi del Sud sono sempre stati elemento di fermento per la dialettica interna dei vari schieramenti, per cui le correnti meridionaliste hanno costantemente fatto sentire il loro peso nelle decisioni delle direzioni nazionali dei vari partiti.

Il meridionalismo dell’Italia pre-repubblicana, vista la levatura dei personaggi che di esso si occuparono, è in genere, e a ragione, quello più conosciuto, anche nei suoi risvolti politici. È invece molto meno indagato il fermento meridionalistico che si ebbe all’interno dei partiti nazionali della prima repubblica, che pure ci fu, e che a noi interessa visto anche il quadro istituzionale praticamente invariato rispetto a quello attuale nel quale si inserì.

Il dibattito sul meridionalismo riprese assieme alla ripresa del dibattito politico in generale, di esso si parlò già nel Congresso di Bari del 1944, il primo congresso di tutti i comitati di liberazione nazionale. Ciò che emerse dal dialogo di quegli anni, dal 1944 al 1947, fu che sarebbero state improponibili politiche liberistiche care alla destra le quali prescrivevano di attendere il libero sviluppo del capitalismo. Lo stesso Einaudi, del Partito Liberale Italiano, non negò una politica meridionalistica pur rimanendo scettico. La linea che passò fu quella della Democrazia Cristiana. La politica meridionalistica della DC in questa fase venne sancita dal cosiddetto “impegno d’onore” che lo stesso Sturzo contrasse dalle colonne de “Il domani d’Italia”, con il quale prometteva che la nuova classe dirigente democristiana si sarebbe occupata del Sud. Tale impegno si tradusse nella fondazione di un “Comitato per lo studio dei problemi meridionali”, nella prima, timidissima, legge per l’industrializzazione del Mezzogiorno e soprattutto nell’approvazione della Legge Sila. Con essa, scritta dal democristiano Antonio Segni, vennero espropriati ai latifondisti assenteisti 400.000 mila ettari di terra, la quale poi fu ridivisa per 90.000 contadini. La legge, se pur importante, non fu affatto risolutiva per i problemi del Sud, non si toccarono infatti i settori secondario e terziario che sarebbero stati quelli decisivi in un paese ad economia avanzata, tuttavia servì alla DC per avviare la realizzazione del suo intento di trasformare i poveri contadini meridionali in piccoli proprietari terrieri e quindi in ceto medio-borghese, così da sottrarre alle forze politiche più radicali il proprio bacino elettorale.

Dal canto suo la politica meridionalista del PCI non ebbe grosse variazioni rispetto a quella indicata da Gramsci (alleanza fra contadini del Sud ed operai del Nord in vista della rivoluzione) nel primo dopoguerra. Rilevante in questo frangente fu la figura di Giorgio Amendola, il quale dopo l’esclusione dei comunisti dal governo nel 1948, tentò un accordo con la direzione del Partito Socialista perché lo scioglimento della coalizione con cui avevano affrontato le elezioni, non significasse anche la dissoluzione di un movimento unitario meridionalistico. Forte di quest’unione lo schieramento rimase contrario presso che a tutti i provvedimenti del governo per il Mezzogiorno, giudicati “tecnicismi” e non realmente risolutivi. Rimase contrario finanche all’istituzione della Cassa del Mezzogiorno che lo stesso Amendola avversò in un celebre discorso al parlamento. In seguito, nel corso degli anni ’60, le posizioni dei socialisti sul meridione si sarebbero ammorbidite grazie al contributo di Rossi Doria, il quale, tra le altre cose, concepì per il Sud un’avanguardistica riforma agraria sullo stampo di quelle anglosassoni.

Nel 1950, sotto il governo De Gasperi, si avviò il periodo dell’intervento straordinario con la nascita della Cassa del Mezzogiorno. La spinta venne dall’istituto di ricerca SVIMEZ, orientato a portare avanti l’industrializzazione del Mezzogiorno e animato in primis dal democristiano Pasquale Saraceno assieme ad esponenti del Partito Repubblicano come Francesco Compagna, Vittorio De Caprariis e Giuseppe Galasso, nonché di parti minori di quello socialista, vedi Rodolfo Morandi. Le fasi dell’intervento straordinario furono due: la prima, dal 1950 al 1957, fu maggiormente rivolta alla realizzazione di bonifiche, irrigazioni, infrastrutture; mentre la seconda contenuta nel “piano Vanoni” contemplò il vero e proprio intervento diretto nell’industria del Sud. Il riequilibrio del rapporto Nord-Sud era il secondo dei 4 punti del “piano Vanoni” (che definiva la futura linea economica del governo). Esso fu un’apertura ai socialisti da parte della DC e riuscì addirittura a dividere i comunisti. Il vice di Togliatti, Longo, vi si oppose, mentre Amendola tentò un comportamento conciliante parlando “atteggiamento non aprioristicamente negativo”. La battaglia maggiore si consumò comunque sul finanziamento da concedere al Mezzogiorno. Gli oppositori furono sia membri del governo come il ministro Campilli, che autorità intellettuali, liberisti dichiarati, come Einaudi o Vera Lutz.

All’attività politica in sé fece eco, durante la prima repubblica, anche un’attività pubblicistica meridionalista legata ai partiti non indifferente. Le riviste “Nord e Sud” e “Cronache meridionali” videro la luce l’una nel 1954 e l’altra nel 1953, e continuarono a darsi battaglia per tutto un decennio, una in quanto espressione del Partito Repubblicano e del suo segretario Ugo La Malfa con il suo orientamento liberaldemocratico e occidentale; l’altra in quanto espressione del PCI, di impostazione gramsciana e diretta dallo stesso Amendola. Entrambe ebbero il merito di considerare la questione meridionale una questione nazionale e di essere costante ed attento richiamo per la classe politica.

Nel 1993, sotto il governo Amato, ad ogni modo l’esperienza dell’intervento straordinario si chiuse e con ciò si mise una pietra sopra alla questione meridionale come questione nazionale, come se anch’essa, assieme a tutte le grandi questioni del sec. XX, avesse preferito abdicare prima del concludersi di quello. In maniera incredibilmente drastica i partiti nazionali smisero di occuparsene e “la questione” uscì senza clamori dal dibattito pubblico. Nessuno tenne conto ad esempio del fatto che per almeno 8 anni, dal 1993, gli andamenti dell’economia meridionale furono in assoluto quelli più negativi di tutto il dopoguerra. La retorica sul localismo virtuoso aveva iniziato a prendere piede e si pensò, forse neanche troppo in buona fede, che patti territoriali, contratti di programma e contratti d’area avrebbero risolto tutto.

La cosa che più lascia perplessi è che tutt’oggi si pensa questo, eppure la questione meridionale ha ancora consistenza, basta guardare l’ultimo rapporto SVIMEZ. Per quanto riguarda il livello produttivo, negli ultimi 10 anni il Sud è rimasto sullo 0%, mentre il Nord è cresciuto dello 0,4%. L’effetto depressivo delle ultime 4 manovre ha pesato al Nord dello 0,8%, mentre al Sud del 2,1%. La riduzione della spesa pubblica al Nord nel 2011 è stata dell’8,2%, al Sud del 18,8%; in particolare gli aiuti alle imprese del Sud erano nel 2001 il 49,9% del totale nazionale, nel 2011 si è scesi al 27,7%. Si sommino le cose e si vedrà come la spesa per il Sud non solo non è maggiore che al Nord, così da incoraggiare lo sviluppo, ma è anche inferiore alla media nazionale. La disoccupazione ufficiale infine è del 6,3% al Nord e del 13,6% al Sud.

Ora, non si vuole dire che patti territoriali e strumenti affini siano un errore, l’errore sarebbe solo lasciare ad essi una responsabilità per i quali non sono all’altezza. Alla questione meridionale serve che torni ad essere una questione di portata nazionale se non di politica estera, e, per far ciò, serve che i partiti nazionali tornino apertamente ad occuparsene. A questo proposito, guardare al panorama politico attuale risulta desolante nonostante le imminenti elezioni. Il PDL ha governato con la Lega negli ultimi 10 anni e i dati sopra citati rendono chiaro quanto la questione meridionale sia stata al centro delle sue politiche; al momento non sono pervenuti intenti su alcunché per il futuro corso politico. L’UDC parla genericamente di coesione e unità nazionale, affermando di voler continuare l’esperienza Monti come se fosse un programma. L’IDV non annovera quello del meridione fra i suoi “temi” principali ed anche il suo futuro appare incerto. PD, SEL e PSI sono gli unici ad aver firmato una carta d’intenti in vista delle prossime elezioni ed in essa si parla di “mezzogiorno” una sola volta come sottocategoria del punto “uguaglianza”. Se ne parla soprattutto come di questione criminale e l’unico proposito di cui si fa menzione è quello di voler “responsabilizzare le amministrazioni corrotte”. Vendola, da par suo, nonostante abbia dedicato al Sud la parte più accorata del discorso tenuto a Ercolano, e sia l’unico politico in Italia a parlare di questione meridionale come questione mediterranea, ha prodotto ben poco di programmatico. Il Movimento 5 Stelle, infine, sembra avere una congenita avversione verso tutto ciò che richieda macropolitiche.

In questi mesi si stanno delineando le proposte sulle quali sarà governata l’Italia dei prossimi 5 anni, sembra il momento giusto allora per riportare alle luci della ribalta nazionale una questione che non smetterà di essere tale solo perché nascosta. Essa potrà diventare il motivo dell’esistenza di partitini e movimenti localistici che in effetti sono fioriti negli ultimi anni dando vita a quel fenomeno puntualmente ribattezzato “terronismo”, oppure essere riaccolta dai partiti nazionali, rimessa al centro dei propri programmi, e resa questione di politica economica, di politica estera e di civiltà. Al pari dello Stato sociale o del sogno di un’Europa unita, la questione meridionale è uno dei grandi temi che hanno segnato il ‘900 italiano, e che merita come quelli di essere sottratto alla fine di un secolo che ha voluto per forza essere breve. Forse troppo.