di Danilo Breschi
Non esiste una società civile proba e sempre innocente e una casta politica disonesta e sempre colpevole. Lo ha ben ricordato Chiara Moroni in un articolo di qualche settimana fa sull’Istituto di Politica. Anzi, possiamo aggiungere che è proprio l’autoindulgenza, quella per cui la “gente” è buona e lo Stato è cattivo, a costituire uno dei vizi più gravi della cultura popolare italiana. Siamo proprio noi a ingannare e mungere lo Stato nelle sue varie forme, rubando di fatto al nostro concittadino, sempre però accusando gli altri per le eventuali conseguenze negative di un tale uso dissennato e privatistico delle risorse e dei servizi pubblici.
Un esempio recente, fra i mille. Il 15 ottobre scorso la Guardia di Finanza di Palermo ha scoperto decine di persone che riscuotevano le pensioni per conto di familiari già deceduti, alcuni dei quali da oltre vent’anni. Gli indagati avrebbero continuato ad incassare pensioni intestate a persone in realtà morte, arrecando un danno alle casse dello Stato di oltre 900 mila euro. L’indagine rientra nell’ambito di un’operazione, denominata con gusto dell’ironia «Carissimo estinto», che ha portato le Fiamme Gialle, già nel 2011, alla denuncia di 41 soggetti i quali, nella loro veste di “delegati” alla riscossione o cointestatari di conti correnti o libretti di risparmio, avrebbero indebitamente percepito rate di pensione in date successive a quelle di decesso dei legittimi titolari degli emolumenti. Nel quadro di tutta l’operazione sono stati denunciati per truffa aggravata ai danni dello Stato e falso ben 482 persone per un danno complessivo arrecato agli enti previdenziali per circa 2 milioni di euro.
È difficile non cadere nella disperazione più nera e paralizzante di fronte a casi come questo, che si verificano da anni e magari solo in questi ultimi tempi ricevono maggiore attenzione e provocano maggiore indignazione a causa della grave situazione economica in cui versa il Paese e della crescente stretta fiscale a cui siamo soggetti. Non è certo da ora che l’Italia conosce una tassazione pesante, soprattutto per quel che concerne alcune categorie lavorative. Ma oggi più di ieri, grazie anche ai recenti scandali politici che stanno travolgendo intere giunte e consigli regionali, è sempre più chiaro che le risorse pubbliche drenate in gran parte tramite imposte e tasse sono letteralmente sperperate e comunque mai sono “ritornate” ai mittenti sotto forma di servizi diffusi ed efficienti. Sappiamo ora che queste risorse finiscono nell’economia malavitosa per 140 miliardi di euro all’anno, nell’evasione fiscale per 120 miliardi annui, oppure in corruzione, rendite ingiustificate e sprechi vari. Il denaro pubblico è il bottino più ambito in Italia.
Oggi ci sono forse le premesse perché acquiescenza e connivenza clientelare si attenuino, quantomeno. E non perché l’odierna indignazione abbia fatto scoccare la scintilla di una svolta antropologica che mai c’è stata e mai ci sarà. Altrimenti non si sarebbe avuta questa Corruttopoli a soli vent’anni di distanza da Tangentopoli. Come allora, peggio di allora. Una minima chance può essere data dal fatto che si è meno propensi alla connivenza, o all’omertà, se la cinghia si stringe per i più mentre continua ad allargarsi per i pochi. Se poi quei pochi sono stati eletti da quei più, la rabbia aumenta nel vederli che, in quanto eletti, si sono sentiti autorizzati a rubare e sperperare in modi che sono persino più arroganti e dilapidatori di prima. In termini di corruzione e concussione, però, bisognerà anche richiedere nuovi limiti ad alcuni poteri della pubblica amministrazione. Quanto corrompe, ad esempio, il potere di assumere migliaia di persone nell’amministrazione regionale? Oppure quale l’effetto dei 96 milioni di euro, sempre denaro pubblico, che nel 2011 sono stati erogati dalle Regioni per finanziare l’attività politica dei gruppi consiliari? Lo abbiamo visto, purtroppo.
Scriveva Albert Einstein nel 1931: “Non possiamo pretendere che le cose cambino, se continuiamo a fare le stesse cose. La crisi è la più grande benedizione per le persone e le nazioni, perché la crisi porta progressi. La creatività nasce dall’angoscia come il giorno nasce dalla notte oscura. È nella crisi che sorge l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie. Chi supera la crisi supera se stesso senza essere ‘superato’. Chi attribuisce alla crisi i suoi fallimenti e difficoltà, violenta il suo stesso talento e dà più valore ai problemi che alle soluzioni. La vera crisi, è la crisi dell’incompetenza”.
E il grande scienziato aggiungeva: “L’inconveniente delle persone e delle nazioni è la pigrizia nel cercare soluzioni e vie di uscita. Senza crisi non ci sono sfide, senza sfide la vita. È una routine, una lenta agonia. Senza crisi non c’è merito. È nella crisi che emerge il meglio di ognuno, perché senza crisi tutti i venti sono solo lievi brezze. Parlare di crisi significa incrementarla, e tacere nella crisi è esaltare il conformismo. Invece, lavoriamo duro. Finiamola una volta per tutte con l’unica crisi pericolosa, che è la tragedia di non voler lottare per superarla”.
Parliamo dunque di “crisi”, in un’accezione non solo economica. È parola preferibile all’espressione “questione morale”, apparentemente più nobile e nobilitante per chi la pronunciasse, ma anche facile a favorire la trita e ritrita retorica dell’indignazione, che lava le coscienze, le compiace ma lascia poi le cose come stanno. Altrimenti, dopo il 1992/93 non si sarebbe arrivati dove siamo. Inutile dunque agitare per l’ennesima volta la “questione morale”. Limitiamoci a voler superare una crisi, gravissima, che, come vent’anni fa, è al tempo stesso crisi fiscale, morale, istituzionale, e sempre posta sulla soglia di una guerra civile, latente ma costantemente presente. Ieri come oggi.
Ottimismo della volontà, si dirà. Può darsi. Ma non vedo molto altro dopo il doveroso, quasi quotidiano, esercizio di un profondo pessimismo della ragione. Se parlo di crisi, diceva Einstein, la alimento, se ne taccio nego il mio diritto/dovere di critica e anche in questo modo finisco per incrementare la crisi. L’unico modo è “lottare per superarla”. È vero, ha ragione lo scienziato tedesco. E il suo invito può valere anche per l’oggi e il domani del nostro Paese. Passare dunque dall’indignazione alla proposta, attraverso analisi più lucide e distese di quel che possiamo o non possiamo fare per raddrizzare almeno un poco la brutta, terribile china che abbiamo preso.
Partire dai temi del controllo delle risorse pubbliche e del finanziamento ai partiti, nonché dei costi della politica tout court, può essere un primo passo. Cominciamo a lanciare una campagna che chieda l’abolizione di qualsiasi tipo di vitalizio per i parlamentari e i consiglieri regionali. La riduzione drastica dei compensi agli amministratori delegati e membri dei CdA di enti ed aziende pubbliche. Dobbiamo pretenderlo ora e subito. Sin dalla prossima legislatura. Lo stesso dicasi per il numero massimo di legislature, così come per l’elezione alla presidenza delle regioni, restringendo quell’autonomia innescata dalla riforma del Titolo V e utilizzata spesso in modo distorto.
Nell’imminente campagna elettorale bisognerà stanare tutte le forze politiche in campo, pretendendo da esse impegni nell’adozione di misure che portino a ridurre le quote di denaro pubblico non destinati ai servizi pubblici essenziali, come istruzione, sanità e infrastrutture. Per non parlare della ricerca e della necessità di superare la “vera crisi”, quella dell’incompetenza, per dirla sempre con Einstein.
Per paradossale che possa sembrare, non si tratta tanto di tornare alla spesa pubblica, ma l’esatto contrario, o quasi. Secondo alcune stime, le manovre varate negli ultimi 12 mesi, prima dal governo Berlusconi poi dal governo Monti, legge di stabilità compresa, porteranno a fare aumentare tra 2012 e 2013 le entrate per la pubblica amministrazione di 82 miliardi, mentre le spese dovrebbero scendere di 23 miliardi. I tagli sono soprattutto minori trasferimenti agli enti locali: se questi enti, come sta accadendo, si rifaranno aumentando le tasse locali, il risultato complessivo di queste manovre sarà 105 miliardi di maggiori tasse e 20 di minori spese.
Sul “Corriere della Sera” del 15 ottobre scorso, Alberto Alesina e Francesco Giavazzi hanno evidenziato come questa composizione sia fatalmente recessiva: “L’aumento della pressione fiscale sposterà ancora più in là la ripresa dell’economia e limiterà il miglioramento dei conti pubblici. Le manovre che hanno avuto minori effetti recessivi e quindi hanno ridotto più rapidamente il debito pubblico sono quelle con una composizione inversa: tagli di spesa e minori aggravi fiscali”. Stato e amministrazioni locali spendono ogni anno (dati del 2010 e senza contare gli interessi sul debito) circa 720 miliardi. Se togliamo i 310 miliardi che vanno in pensioni e spesa sociale, ne restano 410. Una riduzione del 20 per cento di queste spese, senza alcun taglio alla spesa sociale, consentirebbe di risparmiare 80 miliardi e di ridurre la pressione fiscale di 10 punti.
Concludono perciò i due economisti: “non si tratta di reperire qualche milione di euro qua e là (sebbene un taglio alle spese delle Regioni, dalle ostriche ai palazzi faraonici, aiuterebbe e non poco), ma di ripensare senza pregiudizi a come lo Stato spende il denaro dei contribuenti”. E infine si chiedono giustamente, e noi dovremmo farlo con loro: “Perché, ad esempio, la raccolta dei rifiuti o la distribuzione del gas devono essere gestiti da aziende di proprietà del sindaco?”
“Riformare il nostro Stato sociale per renderlo al tempo stesso meno costoso e più efficiente nel sostenere i redditi dei meno abbienti”: bisogna pretendere questo da tutti i partiti. Il populismo dilaga solo se noi, popolo, ci affidiamo politicamente alla nostra pancia: oggi, che c’è crisi, per rigurgitare disgusto e indignazione morale, e magari domani, qualora ci fosse un nuovo benessere, per soddisfare una rinata ingordigia che della morale farebbe strame. Questione morale? No, grazie, non si addice al machiavellico italiano. La trasformerebbe subito in retorica per perseguire meglio il proprio vecchio fine di sempre. Meglio una questione di intelligenza: più tagli alla spesa pubblica improduttiva e che crea rendite parassitarie (per la politica, in primo luogo), e avremo più Welfare, quello vero, quello sano e giusto.