di Angelica Stramazzi
All’inizio, ossia fin dal momento della sua designazione (dall’alto) come segretario del Popolo della Libertà, venne fatta persino dell’ironia su quel nome – Angelino – non proprio adatto a chi, nel luglio del 2011, si accingeva a guidare un partito che tale non è mai stato. Con quel nome – mormoravano i principali detrattori (ma non solo) del “ragazzo” di Agrigento – non andrà da nessuna parte, figuriamoci se riuscirà a rimettere in sesto la squadra.
Già, nessuna profezia fu più veritiera di quella appena ricordata. Eppure Alfano, nonostante il nome, era sembrato ai maggiorenti del Pdl, ma anche all’elettorato che seguiva indirettamente quella designazione (dall’alto), intenzionato ad imprimere alla creatura nata dalla “svolta del Predellino” un nuovo corso. «Il Popolo della Libertà – disse con forza in quella (insolita) circostanza – dovrà essere il partito degli onesti». Sorrisini, battute, prese in giro. A distanza di tempo – e successivamente agli scandali regionali, Lazio in primis – quel proposito non solo non si è avverato, ma chi aveva sbagliato è rimasto sostanzialmente al proprio posto (tranne qualche capro espiatorio), i candidati non candidabili sono stati candidati eccome, qualche volta persino eletti, con il risultato che la (già) precaria credibilità di Alfano, sia all’interno che all’esterno del partito, è andata via via disgregandosi.
Il risultato delle elezioni regionali siciliane non ha poi giovato a cementificare – e a confermare – quella leadership che, pur all’interno di un contesto privo di grandi personalità carismatiche ed in grado di mobilitare l’elettorato di riferimento, aveva cercato con forza (e senza non poco impegno) di emergere. La sconfitta di Musumeci segna dunque non tanto la débâcle del Popolo della Libertà nel suo complesso e di Alfano nello specifico: all’interno di un gruppo infatti, l’operato del singolo dovrebbe (quasi) sempre raccordarsi con quello degli altri componenti, in modo che la percezione esterna di una determinata strategia d’azione venga sentita come frutto di un percorso fatto di riflessioni, dibattiti, confronti aperti e scambi di idee. Ciò che invece il caso della Regione Sicilia, limitatamente al centrodestra e al Popolo della Libertà, lascia trapelare in superficie, è il fallimento dell’opera di “normalizzazione” avviata dallo stesso Alfano; un’opera, beninteso, mai appoggiata e sostenuta non solo dai big del partito, ma persino dallo stesso Berlusconi, poco avvezzo ai meccanismi decisionali di una macchina complessa e fortemente articolata al suo interno qual è, giustappunto, quella partitica. «Del caso Sicilia se ne sta occupando Alfano», aveva detto qualche giorno fa l’ex premier ai cronisti che gli domandavano dei pronostici sulle elezioni regionali nell’isola, quasi a sottolineare un distacco reale e non già ipotetico tra la sua persona e quella dell’ex Guardasigilli. Sempre più influenzato dalle azzurre amazzoni, dal gruppo degli anti-montiani e dalla schiere dei forzisti della prima ora, il Cavaliere si è di fatto disinteressato di ciò che «Angelino» stava, da due anni a questa parte, faticosamente costruendo: un partito vero, con organismi di discussione e confronto al proprio interno, in cui il personale politico venisse scelto attraverso modalità in grado di far emergere il merito e non già la fedeltà ai desiderata del capo. Una sorta di sfida insomma, a volte aspra, tra due blocchi ed entità sostanzialmente diverse: il gruppo degli onesti – che nel Pdl, va da sé, ci sono – e quello dei fedelissimi, ossia di coloro che, pur di non nuocere alla volontà del padre fondatore, piegano la testa e smettono di pensare. Di esprimere la propria posizione, di contraddire quella di coloro che ricoprono ruoli apicali e, in buona sostanza, di realizzare qualcosa di diverso rispetto ad un’associazione per bande.
Ad Alfano va dato atto di averci provato, seppur in solitudine e (quasi) contro tutti, ad imprimere una svolta a quel Popolo della Libertà nato dalla fusione (a freddo) tra Forza Italia ed Alleanza Nazionale. Toccherà a lui – visto che altre personalità in quel contesto non ce ne sono o faticano ad emergere – recuperare i cocci di una “normalizzazione” mal riuscita. Si disse, in quel Consiglio Nazionale di due anni fa, che il Popolo della Libertà sarebbe stato «il partito degli onesti»: si riparta da questo nobilissimo proposito, prima che sia troppo tardi. Adesso – direbbe Matteo Renzi – o mai più.