di Danilo Breschi
È proprio vero quando si dice che un classico è colui che ha lasciato pensieri e scritti che valgono anche dopo la sua morte, raggiungendo una verità, piccola o grande, che permane nel tempo e nello spazio. Alexis de Tocqueville è uno di questi.
Tocqueville nei Souvenirs annotava come nella Francia del suo tempo, in conseguenza della centralizzazione amministrativa, i francesi non sognassero che di essere dei funzionari: “il gusto per le funzioni pubbliche e il desiderio di vivere per mezzo del denaro pubblico, da noi, non è affatto una malattia particolare che affligge una parte, ma costituisce la grande e permanente patologia della Nazione nel suo insieme”.
Da sempre il denaro si è intrecciato alla vita politica, anche a quella democratica, come, tra gli altri, già molti anni fa sottolineò Domenico Fisichella in un bel volume dedicato proprio a Denaro e democrazia. Il problema odierno è che “la politica si attarda nei suoi riti, l’economia ne inventa una al minuto”. Ma il problema è anche, a mio avviso, che la politica fattasi Stato ha saputo creare un’economia pubblica, vizio e virtù delle democrazie del Welfare e del benessere.
È certo che molto denaro a disposizione di una macchina legittimata a drenarne tanto, tantissimo, in nome del bene comune e della redistribuzione a fini di giustizia sociale, diventa mèta ambita da chi intende impossessarsi dello Stato per tramutarlo in gallina dalle uova d’oro da tenere tutta per sé. Centralismo e statalismo richiedono tanto denaro pubblico, e questo favorisce la formazione di clan politici parassitari. È così? Possiamo definire come “legge”, tendenza ad alta probabilità di realizzazione, l’affermazione di Tocqueville? Sì. Non a caso, ultimamente si sta proponendo da più parti l’esigenza di “affamare la bestia” della partitocrazia incistata nella macchina statale.
Il problema odierno per l’Italia è che uno Stato opportunamente dotato di risorse finanziarie allo scopo di erogare servizi di Welfare, anzitutto sanità e istruzione, è stato occupato e dirottato nelle sue spese da una casta di persone che hanno inteso la politica come la via più breve per guadagni stellari e rendite infinite.
Nadia Urbinati ha di recente sottolineato come la macchina pubblica sia sempre più “usata come un grande affare per sé, la propria famiglia, i propri amici, la propria fazione”. Chi conosce la storia d’Italia sa bene che non si tratta affatto di una novità. Quel “familismo immorale e clientelismo cronico” denunciati dalla Urbinati sono un’eredità dello Stato postunitario, sin dai primi anni più “borbonizzato” che “piemontesizzato”, nonostante la repressione violenta del brigantaggio e una carica prefettizia riservata, o quasi, a notabili nordisti sino a fine Ottocento.
Riforma, c’è dunque un bisogno urgente di riforma del sistema politico e amministrativo italiano. Ed è allora qui che la memoria torna ad un altro insegnamento del grande normanno, e che molti studiosi hanno denominato la “legge di Tocqueville”. La seconda legge, per noi, tratta stavolta da L’Ancien régime et la Révolution.
Tocqueville, in realtà, non formulava leggi, ma traeva alcune considerazioni, espresse in forma di massima, da uno studio attento dell’esperienza storica. Ne ricavava delle regolarità e ipotizzava delle tendenze, senza pretesta di universalizzazione. In ogni caso, la particolare ma significativa esperienza francese gli pareva insegnasse che “per un cattivo governo il momento più pericoloso è sempre quello in cui esso comincia a riformarsi […]. Il male sopportato pazientemente come inevitabile diviene intollerabile non appena si concepisca l’idea di liberarsene”.
Con l’acume e l’equilibrio critico che lo contraddistinguevano, lo storico socialista Luciano Cafagna aveva recuperato questa massima tocquevilliana per segnalare quel che stava accadendo nell’Italia del 1992-93, travolta dall’inchiesta di Mani Pulite. Ad aggravare la situazione del tempo vi era una peculiarità italiana, che aggiungeva un corollario alla presunta legge tocquevilliana: piuttosto che iniziare a riformarsi, il sistema politico nostrano amava parlare e parlare di riforma, ma alle parole non seguivano i fatti. Questa evocazione puramente retorica, protratta nel tempo, aveva sortito effetti ancora più drammatici, inasprendo i sentimenti dell’opinione pubblica.
Non dissimile la situazione oggi, anno di grazia 2012. Ciò a dimostrazione che da Tangentopoli a Corruttopoli vent’anni sono passati invano, o che, semplicemente, la Seconda Repubblica è stata solo una Prima Repubblica messa nell’incubatrice per sopravvivere, magari per crescere un poco. Cresciuta è cresciuta, ma non in modo sano e virtuoso, come da parte di tanti si era sperato. Un passo avanti e due indietro. E così siamo alla fine del 2012, e appunto la retorica della riforma ha preso nuovamente il largo nell’ultimo ventennio, e alle parole anche stavolta sono seguiti pochi fatti. Laddove si è cambiato, come nel caso delle Regioni, si è poi scoperto di avere più costi che benefici. Sartori ci aveva messo in guardia a tal proposito. È da dire, però, che anche in questo caso la veste istituzionale è stata ben presto piegata per assumere le forme, opulente, di una classe politica che non ha smesso di scivolare nel fango anche dopo le rivelazioni di Tangentopoli.
Un’analisi comparata dei bilanci regionali, messi a confronto con quelli di una decina di anni fa, rivela che vi è una quota impressionante di “uscite improduttive”. Tra il 2001 e il 2010 le spese correnti regionali sono cresciute in misura esponenziale, passando da 107,6 miliardi agli attuali 151, con un aumento del 40,3%. Negli ultimi dieci anni le spese totali regionali hanno visto crescere di due punti il loro peso rispetto al PIL, dal 9,45% all’11,48%. Continuando nella lettura dei dati, si scopre anche che la regione Sicilia ha superato quota un miliardo l’anno per la spesa destinata agli stipendi dei suoi dipendenti. Il numero di questi ultimi, tra dipendenti diretti e indiretti, è lievitato fino a quota 53.000, per un costo annuo, tra stipendi e pensioni, pari a 2,6 miliardi di euro. Il lievitare astronomico delle spese ha coinvolto molte altre regioni. Secondo l’Istat, i costi della politica in Emilia-Romagna sono cresciuti del 199% tra 2001 e 2010. La Liguria, con circa un terzo degli abitanti rispetto all’Emilia-Romagna, ha avuto livelli di spesa simili nello stesso decennio, mentre la Puglia ha speso oltre 7 milioni all’anno in più, nonostante abbia 4,1 milioni di residenti contro i 4,4 dell’Emilia-Romagna.
Ovviamente, non tutte le spese sono uguali, ma quelle improduttive sono state davvero cospicue. Specialmente i consumi, ovvero gli acquisti di “beni non durevoli”, che servono alla macchina amministrativa ma precedono l’erogazione del servizio, hanno registrato un aumento del 39% a livello nazionale. Secondo dati recenti forniti dalla Ragioneria generale dello Stato, molte spese improduttive si nascondono anche sotto la voce dei trasferimenti alle Asl. Tra 1990 e 2011 i costi dei consumi intermedi negli enti sanitari sono aumentati del 277% contro il +138% fatto segnare dal PIL nello stesso periodo. Una vera e propria “Sprecopoli”.
Torniamo a ripetere che alcuni provvedimenti vanno presi subito, senza alcuna esitazione e dilazione. Il vitalizio parlamentare è ormai intollerabile (lo era da sempre, perché crea inevitabilmente una casta attribuendo ricche rendite con soldi pubblici). Come si possono ancora tollerare dichiarazioni quale quella di Mario Tassone, deputato dal 1976, che un paio di settimane fa ha detto a Radio24: “Dopo quarant’anni sapete che cosa mi aspetta? Un vitalizio da 6.800 euro (al mese)”, ma lordi, ha poi precisato, aggiungendo: “Se lei pensa quanto prendono gli amministratori dell’Enel, delle ferrovie. Una cifra molto modesta”.
Proprio così! Sembra di avere a che fare non con una semplice casta, ma con l’intera aristocrazia di corte dell’Ancien régime catapultata qui da noi direttamente dal diciottesimo secolo. Inevitabile quindi rileggere Tocqueville come interprete efficace di molti mali nostrani odierni. E ricordarsi che il grande normanno scrisse sempre a ridosso di crisi e crolli di regime. Vediamo di evitarli a casa nostra.