di Alessandro Campi
Grillo e il suo movimento fanno paura. Tutti i partiti temono una loro clamorosa affermazione alle prossime elezioni politiche e non sanno come arginarne la crescita.
Ma oltre a preoccuparsi della forza attuale del M5S, gli avversari di quest’ultimo dovrebbero anche interrogarsi sull’origine di essa. Sul perché nel giro di pochi anni un comico (come Grillo è stato a lungo liquidato con un che di spregiativo) sia potuto diventare un leader politico in grado di orientare grandi masse e di tenere sotto la sua minaccia un intero sistema politico (per quanto ormai fatiscente).
L’impressione, infatti, è che il successo di Grillo – al di là delle sue obiettive capacità personali (in primis uno straordinario istrionismo) e della bontà delle sue proposte politiche (ancora tutta da verificare) – sia stato costruito in gran parte dai suoi attuali avversari: dai loro ritardi culturali, dai loro cattivi comportamenti, dai loro marchiani errori politici.
Bastano alcuni esempi per rendersene conto.
Per prima cosa, coloro che oggi pensano di frenare Grillo additandolo come un pericolo per la democrazia, o sostenendo che il suo non è un movimento politico ma una setta esoterica guidata un guru esperto nell’arte della manipolazione, semplicemente non si sono resi conto della rivoluzione tecnologica che stava avvenendo sotto i loro occhi e dei cambiamenti che quest’ultima stava imponendo nella comunicazione, nella vita civile e nelle regole della competizione democratica.
Mentre gli attori politici tradizionali si affannavano – sulla base degli obsoleti insegnamenti berlusconiani – a contendersi gli spazi televisivi, Grillo si dedicava a internet e alla comunicazione digitale, avendo intuito l’importanza dei social network e dell’universo dei blogger per la diffusione dei propri messaggi. Alla presenza nei talk show e nei pastoni nei telegiornali ha preferito la penetrazione capillare delle sue idee attraverso la rete. Con il suo sito si è rivolto alle giovani generazioni, coinvolgendole attivamente nel suo progetto, mentre i suoi avversari parlavano ad un pubblico sempre più anziano e tradizionalmente passivo. E lo ha fatto sulla base di temi anch’essi poco frequentati dai partiti: risparmio energetico, politica dei trasporti, economia verde, infrastrutture informatiche, democrazia diretta, ecc.
Ci sono poi da considerare lo sfascio etico-civile e il fallimento politico-istituzionale che, a dispetto delle promesse e delle aspettative, si sono prodotti durante la Seconda Repubblica e la cui responsabilità cade per intero sui partiti che in questa stagione hanno svolto un ruolo più o meno da protagonista. L’ascesa di Grillo è per molti versi direttamente proporzionale al degrado e alla decadenza che gli ultimi vent’anni hanno fatto registrare.
Una classe politica che ha dimostrato di essere largamente corrotta e comunque incapace di mantenere le promesse agli elettori e di occuparsi della cosa pubblica, doveva per forza produrre prima o poi una reazione, nel segno del disgusto e di una crescente riprovazione collettiva. Grillo – essendo totalmente estraneo al sistema dei partiti – è colui che, con più credibilità di altri, ha tradotto in slogan efficaci la rabbia degli italiani dinnanzi agli scandali che si sono succeduti e che non hanno risparmiato nessun soggetto politico.
Ci si può consolare dicendo che figure alla Grillo – a metà strada tra il predicatore e il fustigatore di costumi – sono tipiche dei momenti di crisi economica e di smarrimento sul piano dei valori. L’Italia stessa ha conosciuto di queste figure. Nel passato, se è lecito fare simili paragoni, Cola di Rienzo e Savanarola. In tempi a noi più vicini, Guglielmo Giannini, il fondatore del qualunquismo. E tutti costoro, se la storia insegna qualcosa, o sono finiti male, travolti dalla loro stessa furia moralizzatrice, o sono scomparsi senza lasciare tracce, alla stregua di una fiammata politica. Ma il fatto che Grillo sia da considerare un fenomeno potenzialmente effimero, che magari tra dieci anni sarà persino dimenticato, nulla toglie alla responsabilità di coloro che, con i loro comportamenti pubblici, ne hanno alimentato la propaganda e la credibilità, sino a farlo diventare una realtà politica di massa.
Ci sono poi colpe politiche più specifiche. Quelle della destra innanzitutto. Non c’è dubbio, ad esempio, che l’antipolitica e il populismo come stile e linguaggio siano entrati di prepotenza nella nostra cultura politica con Berlusconi. La sua originaria fortuna si è costruita tutta sulla denuncia del “teatrino della politica” e sulle accuse indiscriminate rivolte contro i politici di professione, considerati tutti ladri o tutti incapaci, salvo poi vedere fallire – alla prova del governo – la sua retorica sulla “cultura del fare”. Per molti versi Grillo è il prosecutore – su posizione ancora più radicali – della lezione di Berlusconi, con il quale del resto condivide l’aggressività verbale, il solipsismo politico, lo stile demagogico e parolaio, l’attenzione spasmodica alla comunicazione e all’immagine, l’uso di un linguaggio diretto e di facile presa emotiva, la tendenza a presentarsi come diverso ed estraneo rispetto al mondo politico ufficiale e persino una comune matrice professionale (in fondo vengono entrambi del mondo dello spettacolo).
Ma nell’affermazione del fenomeno Grillo anche la sinistra politico-culturale italiana non è esente da colpe, sebbene non ami sentirselo dire. Certi umori e stati d’animo nel segno di un’intransigenza etica che facilmente sfocia nell’integralismo politico e nel settarismo, una certa visione assolutistica della politica, che esclude il dialogo e punta alla demolizione (fisica e morale) dell’avversario, si sono andati radicando nella società italiana nella lunga stagione movimentista che la sinistra italiana – disposta a tutto pur di abbattere Berlusconi – ha inaugurato nel 2002 con i “girotondi”, ha poi proseguito con le adunate teatrali di intellettuali e comici, le fiaccolate e le kermesse di piazza, sino ad arrivare, nel biennio 2009-2010, alle manifestazioni del “popolo viola”.
Presentate come l’espressione di un disagio sociale effettivo e di un legittimo desiderio di partecipazione, queste manifestazioni erano anche il prodotto di una frustrazione politico-ideologica camuffata da senso civico, che non a caso tendeva a scaricarsi, oltre che sull’odiato Cavaliere, sui propri rappresentanti politici, sui partiti della sinistra e più in generale sulle istituzioni, accusate anche ai massimi livelli di non opporsi, per ignavia o mancanza di nerbo morale, alla deriva della democrazia italiana verso una forma di autocrazia o di regime personale.
Grillo, così come ha ereditato l’antipolitica berlusconiana, ha fatto proprio in larga parte il lascito della sinistra movimentista, giustizialista e radicaleggiante, mettendoci poi del suo: gli insulti, i nomignoli irridenti sugli avversari, la volontà demolitrice indirizzata verso l’intero sistema, la pretesa di superiorità morale sino a sfiorare il razzismo antropologico, la stile rabbioso tipico del capopopolo.
Oggi siamo qui a chiederci se Grillo vincerà le elezioni. Ma chiediamoci anche perché ciò potrebbe accadere: per quale strano concorso di fattori storici, ma soprattutto per responsabilità di chi.