di Danilo Breschi
Senza filosofia politica la cronaca è muta, senza cronaca la filosofia politica è cieca. Così potremmo dire, parafrasando Kant e invitando a soffermarsi su alcuni fatti di cronaca recente che meritano una riflessione che vada al di là della mera indignazione morale. Il tema in questione ci ricollega alla lezione impartita da Nicola Matteucci in un suo scritto del 1996, ricordato da noi qualche tempo fa su questo sito. Parliamo dunque di multiculturalismo e del rischio di confonderlo con il pluralismo. Multiculturalismo come relativismo in materia di culture, e conseguente indifferenza su costumi e valori, lasciati essere all’interno di una società-contenitore che invece dovrebbe avere anche dei precisi contenuti, pena essere sopraffatta dal criterio del maggior numero. E il maggior numero è principio tutt’altro che democratico se preso isolatamente, in sé e per sé. Isolata, la maggioranza vuol dire solo “forza”, non diritto.
Partiamo dunque dalla cronaca. Nera, nerissima, e tristissima. E qui elenchiamo solo alcuni delle centinaia, forse migliaia di casi che contribuiscono a corrodere il già fragile tessuto morale e civile italiano ed europeo. Iniziamo da Amburgo, Germania. È il 1° novembre del 2011 quando la diciottenne Arzu Özmen viene uccisa con due pallottole in testa sparate dal suo fratello maggiore perché è innamorata di Alexander, un panettiere tedesco di 23 anni. Voleva “vivere all’occidentale”, ma la famiglia non ha accettato. I genitori di Arzu, immigrati 25 anni fa dalla Turchia orientale, fanno parte di una minoranza religiosa che rifiuta i matrimoni interreligiosi. Così, il giorno in cui suo padre scopre la relazione sessuale della figlia con un cristiano, la picchia a sangue. In ospedale, mente e dice di essere caduta in bicicletta. Ma poi decide di fare denuncia contro suo padre per aggressione. “Quel giorno ha firmato la sua condanna a morte”, ha detto il procuratore. La sorella riesce a rintracciarla attraverso una banca dati. Le scrive in una e-mail, per convincerla a tornare, che il padre ha avuto un attacco di cuore. La sera del 1° novembre, Arzu commette l’errore di andare a casa del suo fidanzato, messa sotto controllo dalla famiglia. I fratelli e la sorella fanno irruzione nell’appartamento di Alexander all’una e trenta di notte e la rapiscono. Il suo corpo senza vita sarà ritrovato undici settimane più tardi nei pressi di Amburgo. Uccisa dai fratelli e dalla sorella, con il padre come mandante.
La Germania e l’annoso problema della massiccia immigrazione turca, si dirà. Ebbene, veniamo a casa nostra allora. Settembre 2012: un piccolo centro sul lago di Garda, in provincia di Brescia. Una ragazza pakistana che, cresciuta in Italia, preferisce vivere da persona libera, e non solo adottare “lo stile di vita del paese dove abita”, come alcuni giornali hanno timidamente scritto. Secondo le tradizioni pakistane, questa ragazza, essendo “in età da matrimonio”, come si sarebbe detto un tempo anche da noi, diventa preoccupazione per il padre, il quale, sempre secondo tradizione e cultura proprie, decide di rimandarla nel paese di origine della famiglia, ovvero il Pakistan, per darla in sposa al cugino che risiede là. Niente autonomia di scelta; decide il padre-padrone. Lei però si rifiuta e così inizia un calvario, che nel suo caso non finisce con la morte, come per la povera Arzu; ma sentite cosa le accade. Per punirla della sua inammissibile disubbidienza alla tradizione “culturale” famigliare viene segregata per settimane, fatta oggetto di violenze fisiche e psicologiche da parte del padre, fino ad essere stuprata a più riprese da un altro cugino, giovane come lei. A dimostrazione di quanto le tradizioni culturali siano radicate ed influenti dentro certe comunità straniere presenti in territorio italiano (ed europeo), questo padre pakistano ha 43 anni, mentre il padre di Arzu ne ha 52. Dunque, tutt’altro che vecchi.
Purtroppo, la provincia di Brescia conosce bene questo genere di violenze. A Sarezzo, l’11 agosto del 2006, trovò la morte Hina Saleem, una ventenne anche lei pakistana, fermamente decisa a vivere all’occidentale, con i jeans e senza velo, e per questo uccisa dal padre – che adesso sta scontando 30 anni di prigione – e, con l’aiuto di due cognati e di un cugino, sepolta con la testa rivolta alla Mecca. E sempre da quelle parti, il 16 aprile del 2011, un’altra diciannovenne pakistana fu liberata dopo due settimane di segregazione da parte dei genitori che volevano farle cambiare idea con la forza riguardo al matrimonio combinato che lei rifiutava. Poco più di un mese dopo, il 28 maggio, in un’altra placida provincia italiana, quella di Piacenza, una donna indiana di 27 anni, incinta di tre mesi e madre di un bambino, è stata strangolata dal marito perché non portava il velo e vestiva all’occidentale.
Infine, è di questi ultimi due mesi il ritorno alla ribalta della vicenda di Malala Yousafzai, la quale aveva conquistato notorietà tre anni fa, quando, non ancora dodicenne, aveva denunciato le atrocità commesse dai talebani nella valle di Swat, in Pakistan. Nel 2008 i militanti talebani vi avevano distrutto più di 125 scuole per ragazze in soli 10 mesi. Vietato dunque alle bambine della valle di Swat frequentare la scuola. Dopo le denunce che aveva diffuso in tutto il mondo tramite un blog creato sul sito della Bbc, Malala aveva dovuto cambiare città e regione. Il 9 ottobre scorso la giovane, ora quindicenne, è stata gravemente ferita da due uomini, militanti talebani, che le hanno sparato alla testa mentre tornava da scuola. Si tratta di una vendetta meditata a lungo, ben tre anni. Trasferita in Inghilterra, Malala è stata sottoposta ad alcune operazioni molto delicate. Le sue condizioni sono adesso in netto miglioramento.
Nel 2009 Malala aveva raccontato il terrore vissuto dalle ragazzine della sua regione “di essere colpite con acido al volto o di essere rapite”, dopo essere state escluse da ogni forma di istruzione. L’anno scorso, in un’intervista alla Cnn, Malala aveva rivendicato il proprio diritto all’istruzione, “il diritto di giocare, di cantare, di parlare e andare al mercato”, proprio come i suoi coetanei maschi, già consapevole di essere un esempio per tutte le ragazzine pakistane deprivate di ogni dignità e libertà. Ha così firmato la propria condanna a morte in un’area a forte presenza talebana.
Il caso di Malala, che ha suscitato clamore internazionale, porta alla luce la condizione delle bambine in Pakistan. Recentemente la Corte Suprema ha dichiarato illegali le sentenze decise dalla giustizia tribale, ma in molte zone rurali continua ad essere frequente l’utilizzo di donne, spesso minori, come ricompensa nelle dispute tra le famiglie. Qualche tempo fa, in Baluchistan, una delle zone più sottosviluppate del Paese, nel distretto di Dera Bugti, una lite tra clan rivali si è conclusa con la consegna, a titolo di risarcimento, di tredici bambine, d’età compresa tra i 4 e i 16 anni. Le piccole sono state cedute da un clan all’altro per essere date in matrimonio.
Quel che Matteucci ci invitava a fare nel suo scritto del 1996 era distinguere bene cultura da tribù, senza nascondersi che l’identificazione tra le due dimensioni può essere favorita da una sostanziale indifferenza verso le culture “altre” spacciata per “tolleranza”. Più di recente lo storico Jonathan Israel, docente a Princeton, ha messo in guardia sul fatto che “tra le sfide principali ai principi dell’Illuminismo radicale, e tra quelle che più in particolare minacciano la società moderna, si colloca il multiculturalismo alla moda infuso di postmodernismo, che si è diffuso nelle università e nei governi occidentali negli anni sessanta e novanta”.
Israel, studioso dell’Olanda di Spinoza e dell’Illuminismo, ha sottolineato inoltre come “questa nuova e potente forma di ortodossia ha giudicato tutte le tradizioni e sistemi valoriali più o meno egualmente validi, contestando in modo categorico l’idea di un sistema universale di valori di per sé evidenti per ragione ed equità, o autorizzati ad affermare la superiorità sugli altri”. “In particolare”, ha proseguito, “molti intellettuali occidentali e politici dei governi locali hanno sostenuto che attribuire superiorità e validità universale ai valori basilari forgiati dall’Illuminismo occidentale ha sentore di eurocentrismo, elitarismo e manca di rispetto per l’‘altro’, a prescindere da ogni pretesa di coerenza razionale”.
È una denuncia precisa, circostanziata, quella di Israel, se solo si accorda la teoria alla pratica, la filosofia alla cronaca. E non si obbietti, per favore, che le cronache di violenze sulle donne non sono solo appannaggio della cultura islamica, e che anzi ne abbondano tra noi italiani ed europei. Nessuno lo nega, ma nessuno lo vede in contraddizione con quanto accaduto ad Arzu o alle ragazze pakistane. Una malvagità propria non cancella né giustifica una malvagità altrui.
Quel che qui si denuncia è una cultura che teorizza e pratica come norma legittima e lecita la subordinazione totale della donna al maschio, prima come padre, poi come marito. La discriminazione e la violenza ai danni delle donne sono una tremenda piaga sempre risorgente nelle nostre società, come dimostrano gli allarmanti dati forniti pochi giorni fa in occasione della giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Un fenomeno che è però stigmatizzato moralmente e perseguito penalmente in Italia ed Europa perché contrario ad una cultura civica e politica oramai consolidatasi che afferma la libertà e l’autonomia dell’essere umano, senza distinzione di genere. C’è ancora molto da fare sul piano educativo e normativo, nonostante l’approvazione della legge che punisce il reato di stalking (peraltro, importante conquista civile), ma possiamo comunque lavorare su un presupposto culturale favorevole.
Il rispetto delle tradizioni e delle culture non-occidentali ha un limite preciso, invalicabile, nel rispetto e nella tutela effettiva dei diritti umani e della dignità della persona, senza distinzione di razza, sesso, religione, credo politico, ecc. È questo un principio-valore che abbiamo conquistato dopo secoli di lotte e tragedie individuali e collettive per l’Europa, e non possiamo rinunciarvi per un presunto “senso di colpa” post-Auschwitz e post-Hiroshima. Semmai, è proprio a seguito di quei terrificanti eventi che dobbiamo intensificare la lotta e ribadire l’importanza dei diritti umani, dentro e fuori le scuole.
Verrebbe da chiedersi se la “tolleranza” di cui ci parlava un Voltaire sia oramai concetto sufficiente per arginare le derive tribali del multiculturalismo, e se il femminismo, inteso come sviluppo e completamento logico della illuministica Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, sia ancora presente in Italia ed Europa. È, il nostro, un interrogativo preoccupato, dal momento che siamo convinti che il femminismo sia stato l’ultima rivoluzione “seria” del ventesimo secolo. Movimento che non può essersi accontentato di aver messo in imbarazzo per un decennio il maschio latino e occidentale. E non può accontentarsi di additare nuove “fallocrazie” e patriarcati solo e soltanto dentro il sistema massmediatico e capitalistico occidentale. Dalle donne d’Occidente attendiamo nuove e più vigorose battaglie.
Femministe del ventunesimo secolo: intervenite prima che riemerga prepotente una tradizione maschilista occidentale, grazie alla sponda eventualmente offertale da un maschilismo islamico lasciato diffondersi indisturbato in nome del multiculturalismo. È una richiesta di urgente presa di posizione. Un nuovo femminismo, non succube della moda multiculturalista e antioccidentalista ma fieramente erede della migliore tradizione illuministica, cercasi disperatamente. Anche perché non siano gli spogliarelli di Madonna a sostegno di Malala le uniche forme di protesta contro il rischio di nuovi oscurantismi in terra d’Europa. Con tutto il rispetto per l’ottima forma fisica della signora Ciccone.