di Alessandro Campi
Annunciata da molti segnali e temuta per i suoi riflessi potenzialmente assai negativi sui conti pubblici e sui mercati finanziari, la crisi di governo si è infine materializzata. Non ha ancora assunto un carattere formale, ma appare chiaro – dopo la scelta di ieri mattina del Pdl di non votare il decreto sviluppo al Senato (pur garantendo il numero legale e dunque l’approvazione del provvedimento) – che l’esperienza dell’esecutivo tecnico è giunta al capolinea essendo venuta meno la maggioranza che in questi mesi l’ha sostenuto.
All’apparenza quella dei berlusconiani è stata una ritorsione per le parole – non si capisce se improvvide o frutto di un calcolo – pronunciate dal ministro Passera in televisione: un invito a non tornare al passato per il bene dell’Italia che è stato letto come offensivo nei confronti del Cavaliere e come una censura indebita verso la decisione di quest’ultimo di ricandidarsi.
Colpisce, tuttavia, che la scelta di sfiduciare Monti (attraverso l’espediente dell’astensione, ribadito anche per la Camera nel pomeriggio sul provvedimento sui costi della politica negli enti locali) sia maturata nel giorno in cui il Consiglio dei ministri doveva discutere e approvare in via definitiva – come in effetti ha fatto nel pomeriggio di ieri – il decreto cosiddetto “liste pulite”. Si sa che l’idea di escludere dalla candidatura a cariche elettive e di governo chi abbia subito sentenze definitive di condanna per delitti non colposi non è mai piaciuta al centrodestra (che tra le sue fila ha molti maggiorenti che con la giustizia hanno avuto sei guai) e meno che mai al Cavaliere. Ma segnalare una tale coincidenza forse è solo una malizia dello scrivente.
La ragione vera di ciò che è accaduto è che, dopo un tira e molle durato settimane, dopo un lungo e forse solo apparente tergiversare, Berlusconi ha deciso nell’ordine: 1) di riprendersi il partito, che in realtà è sempre stato suo e che non si capisce perché, pur perdendo consensi a rotta di collo, avrebbe dovuto lasciare ad altri (persone che, per di più, non stima e che giudica ingrate); 2) di chiuderla con la storiella delle primarie, che ha sempre considerato un’inutile perdita di tempo; 3) di ricandidarsi, sempre con la solita scusa che è il popolo a chiederglielo e dopo essersi convinto che né Alfano né altri nel Pdl erano alla sua altezza nelle vesti di candidato alla guida del Paese.
Al tempo stesso, ha fatto subito capire – mettendolo in crisi un governo che pure per mesi ha sostenuto – quali saranno i temi fondanti della sua futura campagna elettorale. Su tutti l’accusa, appunto rivolta a Monti e ai tecnici, di non aver saputo affrontare la crisi economica, di aver oberato di tasse i cittadini e di aver fatto gli interessi della Merkel più che dell’Italia. Più una spruzzata d’anticomunismo che nel caso del Cavaliere non manca mai e che dopo la vittoria di Bersani alle primarie del centrosinistra torna persino facile agitare.
Proponendosi come il salvatore dell’Italia dalla dittatura (e, a suo dire, dal dilettantismo) dei tecnocrati, con la solita promessa di abbassare le tasse e di fare riforme finalmente radicali (Costituzione, giustizia, il solito elenco di buoni propositi), prendendosela con Bruxelles e le sue ricette all’insegna del rigore, Berlusconi conta di riprendersi i voti attualmente parcheggiati nell’astensionismo, facendo altresì concorrenza a Grillo; al tempo stesso, su questa base è sicuro di poter riallacciare i suoi antichi legami con la Lega Nord, che da mesi non gli chiedeva altro che di staccare la spina al governo.
Che possa vincere le elezioni – su queste basi programmatiche, per giunta – lo escludono tutti i sondaggi. Che limitandosi a trattare numeri e percentuali non riescono, tuttavia, a dare conto del vero limite di Berlusconi, che non attiene la sfera politica ma quella della psicologia collettiva: il fatto cioè che dopo aver stimolato l’immaginario profondo degli italiani per vent’anni, facendoli illudere e sognare (incubi compresi), Berlusconi sembra oggi uscito, per eccesso di saturazione, dal loro orizzonte mentale, dalla loro sfera emotiva. Chi lo ha amato, è preso oggi da altre preoccupazioni (in primis economiche) e non riesce a nascondere la profonda delusione nei suoi confronti. Chi lo ha avversato, ha smesso di viverlo come un pericolo e si gode l’attesa della sospirata vittoria. Il che non toglie che, restando in vigore il Porcellum, avendo cioè la possibilità di scegliersi i parlamentari uno ad uno, il Cavaliere possa egualmente mantenere nel futuro una significativa presenza parlamentare, da spendere in qualche modo nel complesso gioco della politica italiana.
Ma tutto ciò detto sulle intenzioni e le aspirazioni di Berlusconi, quel che resta da capire è soprattutto cosa abbia in animo di fare Mario Monti, ora che il suo governo è stato appiedato. La decisione di candidarsi – per continuare la sua opera ma questa volta godendo di un sostegno politico conquistato personalmente sul campo – è l’unica che, a questo punto, possa modificare gli equilibri e le dinamiche del nostro sistema politico. E offrire un’alternativa credibile ad elettori (in particolare quelli del fronte moderato: per inciso, la maggioranza del Paese) che altrimenti dinnanzi a sé troverebbero soltanto tre offerte tra cui scegliere: la sinistra “pigliatutto” di Bersani, la destra berlusconian-leghista tornata nuovamente sulle barricate e il populismo internettiano e intriso di demagogia democraticista di Grillo.
Sino ad oggi il prof. Monti ha evitato di scoprirsi circa il suo futuro politico, avendo un compito assai delicato da svolgere come capo del governo e disponendo di una maggioranza assai composita da tenere a bada. Ma la situazione, non per sua scelta, è radicalmente cambiata. Lo scontro elettorale si avvicina a passi veloci. Si tratta dunque di capire se intende accettare (o eventualmente rifiutare una volta per tutte) l’invito a guidare un raggruppamento di partiti e movimenti civili il cui obiettivo non dovrebbe essere quello di perpetuare in modo pedissequo l’esperienza di un esecutivo, più burocratico che tecnico, che in certe sue espressioni non ha certo brillato e sul quale Monti – considerato il suo profilo politico e culturale – non può certo essere appiattito, ma quello di dare vita ad un’originale e innovativa proposta politico-elettorale: un cartello riformista di matrice cattolico-liberale che si misuri nelle urne con gli altri tre blocchi politici che ormai si sono chiaramente delineati.
Sarebbe ovviamente una scelta di campo assai netta, destinata a cambiare lo scenario istituzionale, la contesa elettorale e la stessa immagine pubblica di Monti, che sin qui è stata quella di una sorta di commissario straordinario dotato di pieni poteri e al di sopra delle parti. Ma in ciò esattamente consiste la politica: nello scegliere da che parte stare e nel decidere cosa fare quando il momento storico lo richiede.