di Emidio Diodato
Nel suo ultimo libro, Il disordine internazionale. Lotte per la supremazia dopo la Guerra fredda (Mondadori 2012), Ennio di Nolfo ricorda le parole di Franklin D. Roosevelt formulate nel fatidico 1941, quando gli Stati Uniti misero in moto la loro supremazia mondiale: “I problemi che dobbiamo affrontare sono così vasti e intrecciati”, disse Roosevelt a Joseph Grew, ambasciatore e poi sottosegretario di Stato, “che qualsiasi tentativo di definirli ci costringe a pensare in termini di cinque continenti e sette mari”. Tale modo di pensare – che Carl Schmitt, dieci anni dopo, avrebbe definito un pensare per linee globali – conteneva in sé tre obiettivi: combattere il nemico giapponese e quello tedesco in una guerra su quattro fronti; superere il sistema delle preferenze imperiali del principale alleato britannico; inserire l’Unione Sovietica nel sistema dell’economia di mercato. Quest’ultimo obiettivo non fu realizzato a causa dell’avvento della Guerra fredda, ma per quanto nell’immediato dopoguerra potesse apparire illusorio non lo era affatto. Come osserva Di Nolfo, l’esempio della Repubblica popolare cinese negli novanta del Novecento mostra quanto un regime autoritario di tipo comunista possa essere compatibile con l’economia di mercato.
Fino al 1945, la possibilità che l’Unione Sovietica accettasse un prestito di 10 miliardi di dollari dagli Stati Uniti non fu affatto remota. I due sistemi economici si sarebbero intimamente integrati sulla base di condizioni tipiche dei rapporti di scambio, quindi secondo l’economia di mercato. Dopo la morte di Roosevelt, tuttavia, le ripetute frizioni tra i due paesi fecero sì che l’assistenza economica fosse subordinata ai problemi politici, portando all’approvazione del Piano Marshall. Gli assetti politici di spartizione dell’Europa, emersi dalla guerra, prevalsero sulla logica dell’economia globale e, di conseguenza, gli Stati Uniti valutarono che avrebbero dovuto aiutare finanziariamente l’ex alleato sovietico solo su una base di scambi vantaggiosi. Non riuscendo a farlo, aiutarono la parte occidentale dell’Europa che avevano liberato nel corso della guerra. Tuttavia, prosegue Di Nolfo, la seconda guerra mondiale fu l’ultimo esempio della possibilità di decidere con la forza l’assetto di potere globale. La competizione nucleare della Guerra fredda tradusse presto le occasioni di competizione globale in confronto tra modelli di organizzazione dello Stato e dell’economia. Alla luce di questa trasformazione, come possiamo valutare l’ascesa economia della Cina e la stessa trasformazione politica della Repubblica popolare?
Oltre che per una differente condizione di partenza, ossia la forza finanziaria della Cina a partire dal 1992 rispetto alla debolezza dell’Unione Sovietica nel 1945, la diversità tra i due dopoguerra è rappresentata dallo scenario pluralista di oggi rispetto alla Guerra fredda. Quella stagione fu segnata dal bipolarismo, anche se successivamente mitigato dai processi di decolonizzazione. Viceversa oggi non è possibile valutare la lotta per la supremazia mondiale senza declinarne al plurale la portata, quindi considerando, oltre al rapporto tra Stati Uniti e Cina, anche quanto avviene in Russia, in India, nell’Unione europea, così come in altre regioni segnate dall’ascesa di potenze emergenti. È proprio questo quadro così complesso che, secondo Di Nolfo, impedisce di descrivere l’attuale conformazione del sistema internazione, e quindi di formulare scenari plausibili. In altre parole, la cifra del presente è un disordine internazionale dovuto alla mancanza di una compiuta polarizzazione. Ciò è a sua volta il prodotto della trasformazione degli equilibri monetari e della conseguente legittimazione dei centri di potere politico dotati di autorità.
La conclusione cui perviene Di Nolfo è persuasiva. Ci si può chiedere, tuttavia, se tale disordine labirintico sia proprio di una fase di transizione oppure se, come sembra suggerire lo stesso Di Nolfo, non vada letto nella sua continuità storica. Come ci hanno insegnato i teorici della complessità, esiste un processo di continuo aggiustamento o di auto-organizzazione per cui, nei sistemi complessi, l’ordine sorge spontaneamente dal disordine. Probabilmente si tratta di ripensare la polarità in termini geopolitici e dinamici, non in quelli statici propri del “realismo strutturale” – ovverossia della principale teoria delle relazioni internazionali sorta all’apice dell’epoca nucleare. Ad ogni buon conto, il contributo maggiore del libro di Di Nolfo consiste nella lucidità del suo autore soprattutto quando egli ci indica gli incroci decisivi dell’attuale labirinto storico.
I più chiari riguardano proprio la Russia e la Cina. Il cambiamento che ha prodotto più vistose conseguenze dopo il crollo dell’Unione Sovietica – secondo di Nolfo – fu la decisione di Gorbačëv, presa nel luglio 1991, di privatizzare la proprietà pubblica mediante la creazione di certificati azionari (i voucher), che i lavoratori delle singole imprese avrebbero potuto ottenere come segni della loro comproprietà di 120.000 aziende di Stato. Questi certificati non erano nominativi e potevano quindi essere posti in vendita. Nel corso degli anni, chi aveva capitali di qualsiasi provenienza ha potuto rastrellarne per accumulare ricchezze sempre più vaste. Il settore della proprietà statale passò dal 75,5 % nel 1991 al 27,9 nel 2000. Nacquero allora le grandi concentrazioni monopolistiche come la Gazprom. Di pari passo la produzione industriale della Russia democratica crollò e la criminalità organizzata giunse ad ottenere il controllo di almeno il 40 % dell’economia del paese e di circa il 50 % delle banche. Nonostante questa tendenza si sia in pare invertita dopo il 2000, il fulcro della produzione russa è rimasto composto di merci destinate al mercato interno oppure di gas per l’esportazione. A questa mancanza di competitività internazionale si aggiunga l’incapacità della Russia di gestire i suoi rapporti nel Caucaso, se non per via di repressioni militari rese possibili dalla rendita nucleare e del veto preso l’ONU. Si pensi infine all’incapacità russa di rimediare alla sostanziale perdita dello sbocco sul mar Nero dopo il crollo dell’Unione Sovietica.
Nel caso cinese, invece, il momento culminante si ebbe con la visita di Gorbačëv a Pechino nel maggio 1989. La Cina si era già aperta all’economia di mercato e in alcuni ambienti cinesi si sperava che la rivoluzione economica fosse accompagnata da un cambiamento politico simile a quello che stava intraprendendo lo stesso Gorbačëv in Unione Sovietica. Circa un milione di persone si radunarono in piazza Tienammen, ma dopo la partenza del leader sovietico la protesta fu repressa nel sangue. Dopo di allora, osserva Di Nolfo, l’economia cinese riprese a crescere a ritmi impressionanti trasformando il paese nella seconda potenza economica su scala mondiale. La ragione di questo successo è dovuta al fatto che alla chiusura politica continuò ad accompagnarsi l’apertura economica. Come rilevato da Giovanni Arrighi, ripreso dallo stesso Di Nolfo, fu la diaspora cinese (quella fuggita dal comunismo) a svolgere un’azione di intermediazione tra il mercato mondiale e le zone economiche esclusive aperte dal programma riformista di Deng Xiaoping. Questa è la ragione per cui la Cina è potuta rimanere un regime autoritario mentre entrava a pieno titolo nell’economia di mercato. A questo punto, conclude Di Nolfo, tutto dipenderà dalla composizione delle riserve cinesi e dalla capacità di stipulare accordi che non prevedano una valutazione in dollari delle merci scambiate.
Molti anni fa chiesi a Di Nolfo quale fosse la teoria o la tradizione di pensiero che guidava la sua ricerca storica. Mi disse che i teorici delle relazioni internazionali non erano in grado, nonostante i loro sforzi, di produrre modelli convincenti. Dopo aver letto questo ultimo saggio penso di avere trovato la risposta. Di Nolfo sa indicare gli incroci della storia grazie alla capacità di pensare in termini di “cinque continenti e sette mari” – un pensiero che coniuga geopolitica e storia internazionale.