di Danilo Breschi

Capita che un cartone animato ti tolga un po’ di ruggine dal cuore e ti indichi la via in luogo di ben più solidi e tradizionali veicoli di saggezza. Non è poi così strano se il cartone in questione è solo l’ennesima riproposizione di una favola, solo un poco aiutata dagli ultimi ritrovati della grafica computerizzata.

Sto parlando del film d’animazione “Le 5 Leggende”, che potete vedere al cinema in queste settimane prenatalizie. La trama è tratta dalla serie di libri di William Joyce, The Guardians of Childhood, e liberamente adattato dal drammaturgo e sceneggiatore David Lindsay-Abaire. Un’anteprima si era avuta al Festival Internazionale del Film di Roma, dove il film era presente fuori concorso.

In questo film, tra un magia grafica e l’altra, si parla di sogni, speranze, dell’importanza di credere in qualcosa, sia pure Babbo Natale o la Fata del dentino (da latte), comunque qualcosa di buono e giusto, e di come i depositari di tutto questo patrimonio di vita siano i bambini, e di come noi, adulti, siamo chiamati ad essere i loro custodi. I bambini sono il futuro dell’umanità e vanno protetti, insieme con il mondo onirico che accompagna la loro infanzia, e aiutarli a crescere significa anche far vivere a pieno la loro età fantastica, la stessa che in altre parti del pianeta è negata a tanti loro coetanei da guerre, fame e povertà.

Dobbiamo essere noi le loro “leggende”, questo il messaggio nemmeno troppo subliminale del film. E non solo per un senso di responsabilità e di benevolenza, di amore nei confronti dei propri piccoli, perché il discorso non vuole e non deve essere declinato in logiche familistiche, per cui al di fuori del proprio clan famigliare c’è solo terra bruciata, o da bruciare. Dobbiamo essere custodi di qualcosa che ora è in loro come ieri era in noi, e che può essere ancora in noi, basta solo saperlo evocare. Insomma, vi ricordate il fanciullino di Pascoli?

Averlo ascoltato a scuola comporta molto spesso il rischio di non avergli dato importanza, di averlo derubricato a noioso e polveroso dicitore di versi stantii e gonfi di vuota retorica. Ma proviamo a rileggerlo oggi, come il Manzoni, ché i suoi “Promessi sposi” fanno tuttora da trama di base per ogni fiction televisiva che si rispetti (o meno), e sovente presenta una struttura narrativa e incastri e figure che sarebbe meglio molti sceneggiatori nostrani recuperassero, per essere moderni e avvincenti. Ma torniamo a Pascoli: “Sappiate che per la poesia la giovinezza non basta: la fanciullezza ci vuole!”.

A cosa aiuta, politicamente parlando, ritirar fuori il fanciullino pascoliano? A tentare rifondazioni antropologiche, necessaria premessa di ogni progetto politico all’altezza di tempi indecifrabili. E allora ecco qualche ulteriore precisazione pascoliana su chi sia questo magico fanciullino: “il mondo nasce per ognuno che nasce al mondo”, e quindi “come sono stolti quelli che vogliono ribellarsi o all’una o all’altra di queste due necessità, che paiono cozzare tra loro: veder nuovo e veder da antico, e dire ciò che non s’è mai detto e dirlo come sempre si è detto e si dirà!”. Si parla di poetar, ma d’altro ancora si può pure intendere.

Qualche lettore obietterà: ma di cosa sta parlando? Favole contro la crisi? Detta così, la ricetta proposta può far sorridere. Ci ha già pensato Bersani a chiarire la questione, subito dopo la vittoria alle primarie: “Dobbiamo vincere ma senza raccontare favole, perché poi non si governa”. Ipse dixit, e, ragazzi!, noi non siamo mica qui a pettinare le bambole…

Non si intende certo avallare l’idea che di fronte alle difficoltà economiche e sociali che stiamo attraversando in Italia, come nel resto d’Europa, quella mediterranea anzitutto, basti mettersi a raccontare favolette, e tanto meno basti credervi. Non sto proponendo una nuova forma di anestesia locale, o totale. Nessuna lobotomia. Soltanto il fatto, nudo e crudo, che una storia fantastica messa sul grande schermo ci ricorda l’importanza di quella immaginazione e di quella capacità di sognare che troppo spesso buttiamo nello scantinato delle cose inutili e non politicamente produttive. Non sto parlando di “fantasia al potere”: in tal senso l’Italia, quanto e più del resto d’Europa, ha già dato. Sto solo suggerendo, come più volte fatto su questo stesso sito, di tornare a lavorare sull’educazione dei più giovani, sin dalla loro più tenera età, e non solo. Insegnare loro, ma anche imparare da loro. Capire quel che hanno, che tutti noi abbiamo avuto, e che forse troppo presto perdiamo.

Parlando di Dr. House, Balzac, Proust ed altro ancora, Alessandro Piperno ha ricordato di recente che “c’è qualcosa di folle e di magnifico nella promiscuità che talvolta si stabilisce tra la nostra vita e le opere di fantasia”. Ecco, il fanciullino pascoliano è perfettamente in grado di fare questo, perché è la stessa poesia dentro di noi, e la poesia fatta carne è il bambino/bambina, o meglio: è lo stato di naturale stupore, “maraviglia” con cui il neonato si ritrova, catapultato all’esterno del grembo materno, antro protettivo ma oscuro, per esplorare e conoscere il mondo. “Egli è l’Adamo che mette il nome a tutto ciò che vede e sente. Egli scopre nelle cose le somiglianze e relazioni più ingegnose”. E qui paion risuonare i versi del Baudelaire delle “Correspondances”…

Se solo avessimo la forza di ritrovare un’adesione piena alla vita, quella stessa che mancava al protagonista suicida di “Fuoco fatuo”, implacabile romanzo di Pierre Drieu La Rochelle, suicida proprio perché naufragato fino alla perdita totale di aderenza alle cose della vita. Quelle stesse cose della vita che fanno piangere i poeti, che non vanno lasciate scorrere via, ma catturate e assorbite quale nuova linfa rigenerativa, come ricordava in una delle sue prime canzoni un giovanissimo e molto ispirato Antonello Venditti.

Nelle “5 Leggende” Pitch è l’Uomo nero. Per troppo tempo è stato fugato dalle menti dei bambini, educati a non avere paura, così che le loro notti sono oramai popolate solo da sogni, e da nessun incubo. Ma Pitch, la Paura, tenta una contromossa: dimostrare che né Natale né Pasqua, nessuna altra festa è popolata di essere magici che confortano e rallegrano i bambini mantenendo promesse di regali e dolcezze. Pitch vuole far cadere il mondo nell’oscurità privando i bambini dei sogni e della loro immaginazione, cancellando completamente il ricordo dei Guardiani. La dicotomia tra bene e male si ripropone: l’eterna battaglia ha il suo ennesimo inizio. E l’imminente uscita nelle sale italiane dell’“Hobbit: Un viaggio inaspettato”, film di Peter Jackson tratto dal fantastico epico mondo di Tolkien, ribadirà e potenzierà oltre misura la consapevolezza che la vita è questo reiterato viaggio (inaspettato?) su una Terra di Mezzo. Ne siamo certi.

In ultima analisi, il messaggio è tanto semplice quanto forte e chiaro: abbandoniamo lo scetticismo, prendiamo per mano i nostri bambini e condividiamo, anche solo per un attimo, quel senso di meraviglia infantile che il cinismo delle nostre società massacra ogni giorno a piè sospinto. Specialmente oggi in tempi di inflazione da parola “crisi”, ripetuta da tv, stampa e internet quasi fosse una formula di maledizione biascicata da una vecchia strega inacidita e rancorosa.

Se l’Occidente è identificabile con il disincantamento del mondo, come ci insegnò Max Weber, stiamo forse proponendo una fuoriuscita da esso? Non credo, sto solo dicendo che c’è fede anche fuori dalle chiese e dentro le dichiarazioni rivoluzionarie del tardo Settecento. Ha scritto a buon diritto, è il caso di dirlo, il grande storico Robert Darnton: “Ci possono essere delle prove insufficienti per le verità auto-evidenti della Dichiarazione americana; sono articoli di fede, nulla più. Ma si deve aver fede in qualcosa, meglio, io credo, nella tradizione normativa dell’Illuminismo piuttosto che nella dialettica che cerca di confutarla”. Alla fine, lo stesso Horkheimer, partito dalla Francoforte della teoria (iper)critica approdò alla “nostalgia del totalmente altro”. Un caso?

In conclusione, si propone solo una nuova sintesi fra tradizione e modernità, magia e scienza. Forse che Einstein non era un bambino cresciuto? Proprio per questo, un genio.