di Manlio Lilli

Alle Gallery della Fondazione Stelline di Milano, nell’ambito di una recente mostra dedicata al pittore, scrittore e incisore russo contemporaneo Maxim Kantor, è stato esposto un olio su tela, proveniente da una collezione privata, intitolato, “La società aperta”. Uomini e donne accalcati, all’interno di una sorta di recinto. Gli uni accanto agli altri. Quasi deformati nelle anatomie.

Un’immagine che rappresenta il sogno di molti. In Italia come in Europa. Come nel resto del Mondo. L’idea che sia necessario un profondo sovvertimento dell’ordine vigente. Che riorganizzi la vita sociale su basi nuove. La crisi finanziaria, che continua a minacciare molte economie, e le deboli politiche mostrate da molti Stati, hanno rianimato questo sentire “antico”. Chiari indizi sono certo le proteste giovanili, dagli Indignados spagnoli a Occupy Wall Street. Ma anche alcune riflessioni teoriche.

Non si tratta evidentemente di inseguire il “comunismo”. Nella fase post ideologica nella quale siamo, sarebbe quasi antistorico. Nonostante qualcuno lo faccia ancora. Come accade a Francesco Raparelli nel suo recentissimo Rivolta o barbarie (Ponte alle Grazie, pp. 224, euro 10,00). Piuttosto che alla conquista dell’apparato statale si mira a qualcosa di più realistico. A Cambiare il mondo senza prendere il potere (Intra moenia, pp. 310, euro 15,00), utilizzando il titolo di un libro del 2004, di un docente di sociologia dell’ateneo messicano di Puebla, John Holloway. Non si tratta, per quello che è considerato uno dei teorici del movimento zapatista, di distruggere l’odiato “ordine borghese”, ma piuttosto di non rendersi partecipi del suo funzionamento. Teoria questa che è esplicitata da Holloway in Crack Capitalism (Deriveapprodi, pp. 287, euro 18,00). A suo dire la rivoluzione è “un processo interstiziale”. Cioè “il frutto della trasformazione quasi invisibile delle attività quotidiane di milioni di persone”. Che con i loro “rifiuti nei confronti del sistema” aprono crepe progressivamente più profonde nella “coltre di ghiaccio” del capitalismo. Fino a provocarne il collasso. Insomma nulla a che vedere con le politiche marxiste-leniniste.

In realtà quanto si propone, anzi si auspica, è qualcosa che assomiglierebbe ad una riedizione, aggiornata, delle idee anarchiche. A pensarla così è ad esempio David Graeber, antropologo, ex docente di Yale, ma soprattutto militante di Occupy Wall Street. Nel suo recentissimo Rivoluzione: istruzioni per l’uso (Bur, pp. 455, euro 15,00), propone di identificare in tante manifestazioni prodottesi a partire dall’insurrezione zapatista del 1994, fino al propagarsi di Occupy, “la più grande fioritura autocosciente di idee anarchiche della storia”. Il modello dunque sarebbe chiaro. L’“azione diretta”. Agire di fronte a strutture di autorità inique, come se se ne fosse già liberi. Bisogna fare come se lo Stato non esistesse. Ma, avverte Graeber, facendo attenzione ai pericoli insiti nel comunismo (specificatamente quello sovietico). “Non si può creare una società libera attraverso la disciplina militare, non si può creare una società democratica dando ordini, non si può creare una società felice attraverso il sofferto sacrificio di sé”, scrive Graeber.

Fondamentale è il perseguire due principi. Innanzitutto non è possibile rivendicare alcun diritto facendo ricorso all’uso della forza. Come dimostra il movimento dei “senza terra” brasiliani. Inoltre è vitale, per il buon esito dell’operazione, fare in modo che esso sia sviluppato badando ad assicurare il desiderio di libertà insito nell’animo umano. Senza tracciare alcuna strategia politica rivoluzionaria.

Per Graeber una significativa svolta sarebbe già avvenuta. Con il tramonto del pensiero unico liberista. La Rivoluzione avviata. Anche se tra innegabili difficoltà. Tra evidenti diversità. Come quelle esistenti tra i diversi attori che si agitano in Italia, come in Europa. Come nel resto del Mondo. Tra gli “alienati”, cioè gli occidentali afflitti da diverse forme di disagio, e gli “oppressi”, ovvero gli abitanti del Terzo Mondo che soffrono la fame (e la sete).

Teorie, scenari prefigurati, sperati. Quelli di John Holloway, come di Francesco Raparelli, come di David Graeber. Oppure di Antonio Negri e Michael Hardt che in Questo non è un manifesto (Feltrinelli, pp. 112, euro 10,00) affidano ai contestatori odierni un compito “costituente” e ad “eventi inaspettati e imprevedibili” la costruzione di una nuova società.

Teorie che partono dalla sostanziale inadeguatezza del modello occidentale. Preannunciando comunque un futuro tutt’altro che radioso. Che alcuni, più radicali, immaginano come un “ritorno all’età della pietra”. Che i più moderati non possono non osservare come un elemento di disturbo nei confronti del processo di modernizzazione. Anche in Italia i motivi di preoccupazione non mancano. Continuando ad essere molto complicato passare da una partecipazione politica, sostanzialmente passiva ad una realmente attiva. Discorso ancor più valido relativamente alla rappresentanza politica. Concretamente mancando la possibilità per validi interpreti della nuova politica di penetrare all’interno della resistente bolla nella quale si sono rinchiusi gli apparati.

Denunciare storture, vizi divenuti congeniti. Nel contempo plaudire a movimenti che arrecano significative novità è legittimo. “Chiamare” la Rivoluzione un po’ meno. Tanto più se si pensa che il sovvertimento del potere costituito possa configurarsi come una valida alternativa.