di Stefano De Luca
Si dice che il diavolo (ma anche Dio) stia nei particolari. Quindi non è forse un cattivo metodo lasciare ogni tanto i grandi cieli del dibattito teorico e scendere sul terreno dei fatti particolari, per capire quale sia la realtà del nostro Paese. Ed è per l’appunto un caso particolare quello che voglio sottoporre ai lettori, di cui ho fatto esperienza personalmente.
Pendolando, per ragioni di lavoro, tra Roma e Napoli, approfitto della neonata concorrenza fra il vecchio gestore (l’ex monopolista Trenitalia) e il nuovo gestore (Nuovo Trasporto Veloce), scegliendo di volta in volta il treno più conveniente. Insomma, a volte prendo il “Frecciarossa”, altre volte “Italo”. Per prendere quest’ultimo in direzione Napoli bisogna arrivare alla Stazione Tiburtina, che – essendo destinata a diventare la stazione ‘passante’ per i treni ad alta velocità provenienti dal nord e diretti a sud – è stata profondamente ristrutturata ed ampliata. La nuova stazione, che porta il nome di Cavour (un grande sostenitore delle ferrovie), è stata inaugurata, dopo 4 anni di lavoro, nel novembre del 2011, alla presenza del Presidente Napolitano. Si tratta di una struttura dall’aspetto avveniristico: è sovrastata da uno spettacolare parallelepipedo di cristallo e acciaio lungo 300 metri, collocato a 9 metri di altezza sopra i binari, che unisce i quartieri Nomentano e Pietralata, storicamente divisi dalla ferrovia. Il progetto prevede anche parcheggi, aree verdi, strade, piazze. Insomma, il conte di Cavour ne andrebbe orgoglioso.
Avendo sempre i minuti contati, non ho mai avuto modo di andare a vedere cosa ci fosse dentro questa avveniristica struttura sospesa sopra i binari, che la sera risplende di centinaia di punti-luce. Ho sempre immaginato che fosse organizzata come una grande stazione, ma in modo ancor più moderno: punti di ristoro, librerie, edicole, negozi di ogni genere, uffici, spazi di attesa e quant’altro. Qualche giorno fa, a causa di un ritardo del treno (sul quale tornerò tra poco), ho finalmente avuto il tempo di farlo e ho quindi scoperto cosa c’è in questa immensa struttura. Niente. O meglio: molte scale mobili, immensi spazi, grandi piloni circolari o quadrangolari, ascensori, spazi circoscritti da grandi vetrate, ma tutto vuoto. Solo alcuni vigilantes, che sorvegliano questo vuoto già preannunciante i caratteristici segni dell’abbandono. Interrogati sulla presenza di negozi e servizi, i suddetti vigilantes rispondono con disincanto romano “certo che li metteranno, forse nel 2025…”. Al momento attuale, nell’avveniristica e nuovissima stazione Tiburtina c’è soltanto un piccolo piazzale esterno, con un modesto bar (senza bagno), una libreria e un’edicola, il tutto esposto alle intemperie. La prospettiva di passare un’ora – tale era il ritardo di Italo annunciato sui tabelloni e dagli altoparlanti – in queste condizioni era veramente scoraggiante, anche perché faceva freddo.
Avevo già deciso di abbandonare la stazione e di tornare a Termini, quando ho visto una ‘casa Italo’ (l’equivalente, molto più spartano ma accessibile a tutti, dei ‘club Frecciarossa’), dove sono andato a chiedere informazioni. Lì ho scoperto, grazie agli addetti (tutti giovani, gentili senza essere affettati, efficienti senza essere frenetici, evidentemente motivati: uno stile decisamente diverso rispetto a quello cui siamo abituati) che il treno aveva in realtà una quindicina di minuti di ritardo. Di fronte alla mia domanda sul perché non fosse stato annunciato questo mutamento, mi è stato risposto che la gestione dei tabelloni e degli annunci è di pertinenza di “Rete Ferroviaria Italia”. La quale, evidentemente, non è abituata a informare tempestivamente i viaggiatori e considera secondario far sapere che il ritardo di un’ora era diventato, da un pezzo, un ritardo di 15 minuti (forse anche perché era il treno era della ‘concorrenza’).
Ricapitolando. La nuovissima stazione Tiburtina, costata (secondo le stime più basse) 140 milioni di euro, giace in uno stato di abbandono desertico, che è uno schiaffo alle opportunità di lavoro che potrebbe offrire (chi passi nel centro commerciale di Termini a qualsiasi ora può farsi un’idea del movimento che si crea in una grande stazione). E un’impresa che ha investito in un settore difficilissimo – e ha creato ‘veri’ posti di lavoro, a tempo indeterminato, per molti giovani – viene evidentemente ostacolata, pur essendo guidata da imprenditori di notevole potere economico (e quindi dotati anche di una certa influenza politica: figuriamoci se si trattasse di outsiders…). Inoltre viene penalizzato tutto l’indotto che potrebbe essere creato da una grande stazione. Domanda finale: siamo sicuri che il problema di questo Paese sia sempre e comunque l’eccesso di libero mercato? Si attendono risposte, fondate possibilmente non sui ‘massimi sistemi’, ma sulla concreta e varia realtà italiana.