di Renata Gravina

Nel caos politico, culturale e sociale che il contesto italiano sta attraversando, l’entusiasmo rivolto alle primarie di centro- sinistra sembra aver ridestato gli animi dell’elettorato passivo come di quello attivo e sembra aver fatto rinascere l’esigenza di politica e di partito. Sulla scia del grande ritorno della passione politica quale antidoto ai mali della società sembra allora interessante ricordare il significato di partito lontano dall’attualità.

Un partito è, fin dalla sua stessa radice latina, ciò che partisce, quindi divide. A ben vedere la storia della formazione politologica del partito si è sviluppata in un modo assai arduo, proprio a causa della condanna che fino al XX secolo lo stesso concetto di partito ha portato con sé, determinata dalla natura definita egoistica e diametralmente opposta rispetto alla natura dello Stato. Il partito, contrapposto da molto pensatori al Bene Comune, rappresentato dalla Res Publica, è stato oggetto unanime di critica da parte di autori classici pur di respiro differente quali Locke Spinoza o Hobbes, poiché visto come promotore di discordia e incentivo agli individualismi dei singoli.

Espressione dello Stato nello Stato secondo la concezione hobbesiana, il partito sarebbe stato, qualora fosse stato liberamente riconosciuto, una delle cause prime dell’angoscioso ritorno degli uomini a uno stato di natura. Sembra paradossale ora ricordare quanto la parzialità intesa come divisione fosse stata contrastata come elemento di discordia, oggi che la parzialità è considerata un valore da difendere in assoluto e innanzitutto.

L’ unica via attraverso la quale il partito nel solco del processo storico-politologico ha ottenuto per così dire una riscossa, è stata quella disegnata nel secondo doguerra nel segno di un’ accezione dello stesso come portatore di interessi nazionali, quindi capace di trovare un compromesso tra la parzialità di un gruppo singolo portatore di interessi personali e limitati e l’ispirazione di partito – in nome dell’universale – rivolta al perseguimento del Bene Comune.

Evitando di trattare la parentesi autoritaria, con l’affermazione dei regimi democratici ed entro le fila della democrazia competitiva di stampo schumpeteriano ci si è convinti di non poter parlare di democrazia senza l’aiuto dei partiti. Si è voluta così sottolineare l’indispensabilità democratica del partito quale canale di formazione di un’opinione pubblica pluralistica.

Se al conquistato pluralismo si affianca come un’ombra il pericolo della partitocrazia, cioè il rischio che i partiti usurpino la funzione pubblica dello Stato, oggi assistiamo a una fase ancora successiva.

Il pluralismo è stato garantito a oltranza e con esso l’involuzione della partitocrazia. Dallo scontento di ciò sono sorte le premesse per l’antipolitica e per la rinascita del desiderio di una democrazia cosiddetta diretta. Queste due opzioni sono però altrettanto alternative al partito e rischiano anzi di rendere difficile la conciliazione della politica con le sembianze amorfiche di essa nell’attualità. La democrazia diretta e il populismo antipolitico favoriscono l’indebolimento della struttura dei partiti per come si sono costituiti secondo l’accezione politologica classica. Se essi sono l’unico mezzo per l’attuazione di un regime rappresentativo e minimamente democratico, la loro esplicazione deve però avvenire nelle forme e nei modi che la politica offre.

Il partito, lo stesso che ha dovuto superare la fase liberale, quella della democrazia di massa e quella della comunicazione politica, lo ha fatto perdendo in questo lungo processo parte del suo stesso significato, caratterizzandosi con le tipicità descritte dal politologo precursore Kirchheimer già negli anni Sessanta. Kirchheimer definiva il partito pigliatutto come un partito caratterizzato da un distacco netto nel rapporto con l’elettore, che, invece, con il partito di massa era coinvolto in una dinamica attiva permanente della politica nelle realtà locali. Il partito pigliatutto aveva come obiettivo quasi solo l’occasione elettorale. Ora, anche la geniale classificazione di partito pigliatutto sembra superata da uno scivolamento verso un amorfismo politico che non solo non preveda una reale base di elettori ai quali rivolgersi, che non solo non preveda una campagna permanente e un rapporto diretto costante con il pubblico ma non preveda neanche una soglia minima di caratteristiche politiche delle quali i rappresentanti di partito debbano farsi carico. Se si intende richiamare il partito non come costituito da componenti casuali della società si deve con esso richiamare anche la buona politica. Il contesto attuale ricorda infatti come si è potutio elaborare il Manifesto per la soppressione dei partiti politici di Simone Weil: “ i partiti sono rappresentazioni di collettività irresponsabili e antipolitiche e lo schierarsi pro o contro è diventata una sorta di lebbra sociale che si è espansa alla totalità della cultura e ha eclissato la facoltà di pensare”.