di Alia K. Nardini

Con l’approssimarsi del secondo mandato presidenziale di Barack Obama, è lecito domandarsi se, nonostante l’avvicendarsi di leadership nella stanza ovale che da sempre caratterizza la politica americana, gli Stati Uniti siano ancora oggi “un gigante con una coscienza”, come li definì dieci anni fa Robert Kagan nel suo notissimo libro Paradiso e Potere: una superpotenza che è disposta ad agire talvolta unilateralmente, ponendo pur sempre al centro delle proprie scelte l’interesse nazionale, sebbene ciò favorisca di riflesso anche un più stabile e pacifico ordine mondiale, data la “liberalità” dei loro principi. È inoltre interessante interrogarsi riguardo alla natura ed alle conseguenze di quella che si potrebbe definire una certa insoddisfazione americana verso la nostra sponda dell’Atlantico, che nel momento in cui scriveva Kagan si manifestava attraverso le politiche muscolari e senza compromessi dell’era Bush.

Certamente le priorità degli Usa oggi, non solo economicamente ma anche in termini di sicurezza, stanno cambiando: a testimoniarlo, prima tra tutti, l’assenza dell’Europa dalla recente campagna elettorale statunitense, se non in forma di destino da scongiurare: dunque la necessità che l’America “non finisca come la Grecia”, la paura di scivolare verso un modello assistenziale “socialista” (termine concepito in un’accezione quasi sempre ed esclusivamente negativa oltreoceano), lo spettro dell’intervento pubblico invasivo nell’industria privata e di una gestione sciagurata delle risorse in grado di spingere il paese sul lastrico. In secondo luogo, il pivot verso il Pacifico, che potrebbe segnare un sostanziale riallineamento strategico degli interessi statunitensi ed in futuro persino ridisegnare un nuovo bipolarismo. Anche a livello valoriale, America e Europa non potrebbero essere più lontane: gli accesi dibattiti diffusi su larga scala negli Usa riguardanti il diritto a portare armi o l’homeschooling, ad esempio, sono difficilmente pensabili in uno scenario europeo. Persino la controversa iniziativa del Patient Protection and Affordable Care Act, meglio noto come Obamacare (“controversa” in patria, certo, seppur immensamente popolare in Europa), si basa sull’obbligatorietà di una copertura assicurativa che – a differenza dei sistemi europei – resta principalmente privata: permane l’obbligo individuale, e non statale, di occuparsi della propria assistenza sanitaria, almeno per la stragrande maggioranza di coloro che sono in grado di provvedervi autonomamente. Questa logica, incomprensibile agli europei, è talmente popolare negli Stati Uniti che neppure Obama ha tentato di scardinarla.

Nel contempo, in Europa, si è avvertita una certa delusione nei confronti del primo mandato Obama: dopo le chiusure esclusiviste dell’era Bush, negli ultimi quattro anni si era atteso, invano, un Presidente degli Stati Uniti più europeista. Invece, eccettuata una maggiore propensione al multilateralismo attraverso il dialogo diplomatico, evidente al suo culmine nella missione in Libia, fondamentalmente l’America ha continuato ad andare per la sua strada. Per questo motivo, seppure il plauso quasi totale ed indiscusso tributato da questo lato dell’Atlantico al Presidente in carica durante la campagna elettorale, nel celebrare la sua vittoria – a parte gli entusiasti dei social network – il sentimento dominante è stato quello di cauta osservazione. Manca ancora un segnale coraggioso e concreto di apertura da parte degli Stati Uniti verso la nostra sponda dell’oceano, segnale che potrebbe concretizzarsi primariamente in ambito economico: un’America che crede realmente nelle relazioni con l’Europa promuoverebbe l’abolizione delle barriere agli investimenti e al commercio su rotte transatlantiche, per facilitare la ripresa dalla crisi dei paesi dell’eurozona.

Sembra d’altronde altrettanto corretto chiedersi quali garanzie l’Europa abbia dato agli Stati Uniti per richiedere questa fiducia al Presidente americano. Obama, così come il Segretario al Tesoro Geithner, si è più volte spazientito verso quella che reputa, comprensibilmente, una certa titubanza da parte dei paesi europei nell’adottare misure decise e anche forse impopolari per rimettere in marcia le rispettive economie nazionali. Seppure l’Europa sia stata terribilmente latitante nel contribuire in maniera concorde e organica alle relazioni transatlantiche nell’ultimo ventennio, i paesi del nostro continente sono i primi a dover dimostrare con i fatti la propria volontà di collaborazione, tornando ad investire risorse nell’alleanza transatlantica per ritrovare il proprio ruolo di partner privilegiato ed affidabile per gli Stati Uniti, nel plasmare i nuovi equilibri in un mondo che cambia sempre più rapidamente. Sostanzialmente, sono tre i nodi focali che l’asse transatlantico dovrebbe comunemente affrontare: le sorti della primavera araba, il conflitto israelo-palestinese, e la minaccia dell’Iran nucleare. Più specificamente, l’Europa potrebbe assumere un ruolo di spicco nella gestione della questione siriana, dove disporrebbe della facoltà di promuovere un rinnovato impegno diplomatico; in Iran, dove sarebbe opportuno lavorare al sostegno di un fronte comune per nuove ispezioni e sanzioni, al fine di evitare un’escalation militare; e nello scenario post-primavera araba, dove è imperante la necessità di un nuovo dialogo con i partner più moderati della zona, Egitto e Turchia in testa (e dunque rivedendo nuovamente la delicata questione del riesame dell’allargamento dell’Unione Europea verso Ankara).

In altre parole, l’Europa dovrà avere un ruolo più attivo nella gestione dei conflitti nelle aree di competenza – cammino che, dopotutto, è già stato iniziato con la Libia – perché l’America sembra intenzionata ad impegnarsi direttamente solo nel Pacifico, tenendo sotto controllo Medio Oriente e più generalmente il resto del mondo (esclusa l’Asia) con un misto di perseguimento della propria indipendenza energetica, difesa cibernetica e utilizzo di droni. In ambito economico, tuttavia, il nostro continente può essere certo che il rapporto con gli Stati Uniti è ancora di vitale importanza: Obama non farà fallire l’Euro, né permetterà che alcuna nazione europea vada sul lastrico, e questa è una grande garanzia per gli europei.