di Danilo Breschi

Altro che società liquida, altro che società del rischio, se c’è qualcosa che questo Occidente merita in termini di condanna, nostra, di chi ci è nato, e di chiunque altro venga ad abitarvi coltivando aneliti di libertà ed equità, è il suo profondo carattere pornografico. Anzi, pornocratico. Una dittatura strisciante e sotterranea.

Alzi la mano chi tra noi maschi non ha mai visto o anche solo sbirciato una rivista o un video a contenuto pornografico. Abbassate pure la mano, nessuno in fondo vi crede, ma nessuno in fondo può, e vuole, condannarvi. In sé non c’è niente di male, in piccola dose può fornire a novizi come a esperti qualcosa di simile ad un manuale di istruzioni, ma già in questa espressione è racchiusa l’essenza della pornografia, che assai poco eccita chi abbia equilibrio e sufficiente esperienza di un reale e appagante rapporto sessuale.

Ci si sente solo spettatori un po’ sfigati di qualcosa incomparabilmente migliore se esperito in prima persona. Ma ci vuole molta maturità per non essere indotti alla perversione da una pseudo-narrazione, quella dei film e video porno, in cui la donna è ridotta a corpo, e il suo corpo è tramutato in carne da macello, oggetto da usare e gettare, giocattolo gommoso e sonoro, o al più trattato come una bestiolina di cui disporre a comando. Per non parlare delle migliaia e migliaia di immagini di stupri di gruppo che circolano sulla rete, con donne, spesso giovanissime, rappresentate sempre come liete di essere (mal)trattate in tal modo. E per tacere della pedopornografia. Vi immaginate il potenziale devastante di un simile materiale visionato da ragazzini di tredici anni, o poco più o poco meno? Che idea si faranno del rapporto tra i sessi? E che considerazione avranno delle loro coetanee?

È da molto tempo che penso che sinistra e destra siano mutate così tanto nel contenuto da risultare inutilizzabili per come le conosciamo. Si sono svuotate di fronte ad una realtà che ha scompaginato le tradizionali bipartizioni in cui gli europei erano riusciti ad inquadrare e decifrare la realtà. Già nel 1930 Ortega Y Gasset scriveva: “essere di sinistra è, come essere di destra, uno degli infiniti modi che l’uomo può scegliere per essere un imbecille: entrambi in effetti sono forme della emiplegia morale”.

E allora mi chiedo se una battaglia di progresso come l’emancipazione dalla mentalità maschilista, intesa come attitudine possessiva, discriminatoria e violenta nei confronti del sesso femminile, non si faccia rimettendo in gioco un tema liberal-conservatore come quello della distinzione tra libertà e licenza, e del freno da imporre alla seconda. La censura ai tempi di internet è probabilmente cosa vana, prima ancora che pericolosa, perché dietro la buona fede dell’educatore progressista può sempre nascondersi la malafede del diseducatore reazionario. Però urge che la filosofia politica, l’opinione pubblica colta, o presunta tale, tematizzi la questione dell’educazione sessuale e si confronti, scontri con la pornografia, lato oscuro di una cultura occidentale che rischia di fare molti passi indietro sul piano dei diritti individuali, della libertà, dell’eguaglianza e della fraternità (e “sororità”).

Temo che la battaglia femminista di trent’anni fa si sia dispersa, frammentata e rinchiusa in una speculazione o troppo risentita o troppo astratta, e abbia perso il contatto con la diuturna fatica di bonificare ed arare un’opinione pubblica maschilista fino al midollo. Non un solo partito, oggi in Italia, reca traccia di una presenza organizzata, attiva e continuativa sul territorio e nel dibattito pubblico, di donne impegnate nella promozione della femminilità.

Si parla tanto di “orgoglio gay” e il Gay Pride è ormai appuntamento immancabile per molte regioni italiane, solitamente d’estate. Ma mi chiedo dove sia l’orgoglio di donne che stanno subendo negli ultimi anni un orrendo crescente “femminicidio”, neologismo introdotto nel 1992 come categoria socio-criminologica e che è stato di recente divulgato anche dai media, i quali, com’è loro costume, si accendono solo a comando, quando la cronaca nera li illumina, per poi spegnersi il giorno dopo, intenti ad inseguire un nuovo caso che faccia ancor più clamore. Ma la violenza sulle donne miete troppe vittime nella nostra società. E ogni volta che una donna è maltratta, violentata, uccisa da un maschio che ne fa oggetto della propria libido di possesso e di mortificazione e morte, la nostra civiltà scende di un gradino e si avvicina agli inferi. E da maschio che ama le donne non posso che vergognarmene. E da uomo che ammira quanto questa civiltà occidentale abbia potuto compiere nei secoli, in mezzo a lutti e tragedie, violente contraddizioni e terribili abomini, invoco mobilitazioni pubbliche di “orgoglio femminile”.

Alla fine abbiamo partorito la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789), la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo promulgata dall’ONU (1945), e persino numerosi documenti e trattati internazionali in cui si elencano e condannano le violenze e le discriminazioni che hanno come vittima le donne, chiedendone l’estirpazione attraverso specifici interventi politici dei governi nazionali e delle organizzazioni sopranazionali. Si vedano, ad esempio, la Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna del 1979, entrata in vigore nel 1981, nonché la Quarta Conferenza Mondiale per i Diritti della Donna, del 1995, ma anche la Dichiarazione di Vienna, del 1993, in cui tutti i Paesi venivano sollecitati a ratificare la Convenzione dell’ONU del 1981. Ad oggi alcuni Stati non l’hanno né firmata né ratificata, ma rifiutata in toto, tra questi Iran, Sudan e Somalia, mentre gli Stati Uniti l’hanno firmata ma non ancora ratificata. Le obiezioni e controversie in campo americano sono generate dal timore delle comunità religiose che il trattato possa essere inteso come avallo di un diritto all’aborto, e hanno già portato nel 2002 all’aggiunta di una dozzina di clausole restrittive volte a garantire che il trattato non possa costringere il governo federale al congedo di maternità retribuito, e le donne a prestare servizio militare nelle unità di combattimento. Questioni comunque delicate. Il dibattito è aperto.

Noi siamo figli di Kant. Anche dopo il tremendo Novecento, il secolo delle due guerre mondiali e dei genocidi (non solo la Shoah, che ne resta l’emblema più paralizzante), l’Europa deve riconoscere le proprie parentele, quelle vere, e disconoscere quelle fasulle, o quelle che hanno disonorato la sua più nobile tradizione giuridica e filosofica. Dobbiamo sceglierci i padri. A questo servirebbe una scuola rinnovellata nella sua primaria funzione. A questo servirebbero nuovi maestri. Maestri come Kant. Leggo dalla “Fondazione della Metafisica dei costumi” (1785): “Nel regno dei fini tutto ha un prezzo o una dignità. Ciò che ha un prezzo può essere sostituito con qualcos’altro come equivalente. Ciò che invece non ha prezzo, e dunque non ammette alcun equivalente, ha una dignità. […] ciò che permette che qualcosa sia un fine a se stesso non ha solo un valore relativo, e cioè un prezzo, ma ha un valore intrinseco, e cioè una dignità”.

Ecco, la dignità. E la pornografia è solo metafora di una riduzione integrale e compiaciuta della donna a mezzo, veicolo di soddisfacimento di pulsioni di godimento e, peggio ancora, di volontà maschili di dominazione e umiliazione, di annichilimento per gratificare un senso di potenza interamente catalizzato dal basso ventre. Ma si rischia di fare così danni irreparabili a quella meraviglia che è il sesso, la fusione di due corpi, anche animalesca, ma di animali sempre e comunque spirituali, consapevoli e soprattutto capaci di interiorizzare l’atto sessuale, di ripensarlo e trasfigurarlo, e renderlo così di un piacere superiore. Leggete Robert Brasillach e “La notte di Toledo”, terzo capitolo del suo più bel romanzo, “Comme le temps passe”, e capirete cosa intendo.

Bisognerebbe oltrepassare la collina del mistero e del sacro e fare un patto con Dio. Fare esattamente quel che cantava nel 1985 Kate Bush in quell’evocativo, incantato e incantevole brano che è “Running Up That Hill”, un’autentica poesia contenuta nell’album “Hounds of Love”. Quel brano parla del rapporto tra i sessi con parole tanto amorevoli quanto struggenti, al limite dello strazio. Un canto di donna ferita ed offesa, nonostante tutto anelante ad una diversa, trasfigurata, migliore unione con l’altro sesso. L’uomo e la donna per capirsi meglio dovrebbero scambiarsi i ruoli e mettersi nei panni dell’altro, si dice nel testo. E così Kate vorrebbe poter contattare Dio, al di là di quella collina, e riformulare il patto originario tra uomo e donna, cancellare quel che accadde tra Adamo ed Eva e subito dopo di loro, riscrivere insomma la storia-madre di tutte le origini, almeno per noi occidentali, ma non solo, se guardiamo alla condizione della donna un po’ ovunque nel mondo. Il titolo originario della canzone era proprio A Deal With God.

Il brano è celebre anche tra i più giovani, poiché è stato oggetto di innumerevoli cover, tra cui quelle dei Faith and the Muse e soprattutto dei Placebo, nel 2003, che hanno realizzato una splendida versione calda e spettrale. Puro ghiaccio fuso. La canzone è stata inserita come colonna sonora dentro vari telefilm di successo e anche nel trailer del film “Daybreakers – L’ultimo vampiro”, con Ethan Hawke, Willem Dafoe e Sam Neill, per quel tanto di gotico che c’è nel sound di quel brano. E, se non ricordo male, è stato pure suonato durante la cerimonia di chiusura delle Olimpiadi di Londra della scorsa estate. Magnifica conclusione di un’edizione memorabile dei giochi olimpici.

Ma veniamo al testo. Ascoltiamone alcuni passaggi (tradotti) dalla voce di Kate: “vuoi provare come ci si sente?/ vuoi sapere che non mi ferisce?/ vuoi sapere qualcosa del patto che sto facendo?/ quello che riguarda me e te/ e se solo potessi,/ farei un patto con Dio,/ e farei in modo che lui invertisse i nostri ruoli,/ risalendo per quella strada,/ risalendo quella collina,/ risalendo quell’edificio/ se solo potessi…/ tu non vuoi ferirmi,/ ma guarda quanto è andato in profondità il proiettile/ inconsapevolmente ti sto spingendo lontano/ c’è una minaccia nei nostri cuori, amore mio / cosi tanto odio per la persona che amiamo?/ dimmi, importa ad entrambi, vero?/ riguarda me e te/ me e te, non saremo infelici”.

Finisco quest’articolo invitando chiunque lo leggerà a cercare su Youtube il video di questa canzone, in cui Kate Bush, diafana sensuale e dolente, balla in una coreografia con il ballerino Michael Hervieu. Guardate attentamente i movimenti di quei due corpi, come si cercano, si fuggono, si abbisognano, l’un dell’altro, dolorosamente, quasi si crocifiggono, a tratti, e ascoltate il testo, leggetelo. Le donne per alimentare nuove pretese e combattere, i maschi per provare ad esercitare un nuovo dubbio metodico, dopo quello di Cartesio, per giungere alla domanda fatidica: e se fossi nato donna, cosa vorrei dall’uomo? Niente lotta di classe trasferita ai sessi, ma un nuovo patto di mutuo soccorso.