di Angelica Stramazzi
Raccontare cosa accade nel mare magnum della politica italiana non è sempre – anzi, quasi mai – un’operazione agevole: occorre una buona dose di pazienza, una smisurata propensione all’attendismo – inteso come necessità di non muover dito, stare fermi e restare a guardare cosa combinano i nostri rappresentanti in Parlamento -, oltre che una spiccata voglia di lasciarsi andare ad analisi che, nella maggior parte dei casi, sono destinate a restare tali, con immenso dispiacere di colui (o colei) che le avanza e propone all’opinione pubblica. Ma dal momento che la speculazione intellettuale non può essere (anch’essa) destinata a morire, unitamente ad altri esercizi della nostra mente, messi duramente alla prova e minati alla base dall’uso massiccio (e preoccupante) delle nuove tecnologie, tanto vale provare a riflettere su quello che sta accadendo in vista delle elezioni politiche del 2013. Perché, se potrebbe sembrare che di novità non se ne registrino poi molte, e che il teatrino della politica – quello rappresentato dai soliti figuranti che, oltre a darsi d’attorno e a cercare per sé stessi uno strapuntino in tribuna, perseguono (e praticano quotidie) l’insulto libero nei confronti dell’avversario percepito alla stregua di un nemico viscerale o giù di lì – ci propini sempre la solita minestra (riscaldata), qualcosa sembra muoversi, con l’intento di modificare un quadro che, fino a non molto tempo fa, appariva preordinato.
Chi avrebbe infatti messo in forse, due mesi o anche solo un mese fa, la vittoria di Bersani e della coalizione di centrosinistra? Pochi, quasi nessuno. Allo stesso modo, pochissimi avrebbero scommesso sull’uscita di scena definitiva di Silvio Berlusconi, leader carismatico di un partito personale (e padronale) che non sarà mai davvero in grado (per manifesta implosione, oltre che per incapacità della sua classe dirigente) di divenire compiutamente liberale ed europeista. Non è tutto: solamente uno sparuto gruppetto di persone sobrie ed austere avrebbe giurato sull’impegno diretto di Mario Monti in politica, in veste non già di tecnico, essendo esaurita tale funzione, e non fosse altro perché l’Italia resta pur sempre una democrazia ed i voti – il consenso – bisogna guadagnarseli sul campo; ma in qualità di soggetto autonomo ed indipendente che desidera proseguire quanto fatto finora per non gettare alle ortiche la credibilità che il nostro Paese ha riacquistato sulla scena internazionale (e non solo). La sua «salita» in campo è stata preceduta dal varo di un’agenda programmatica attorno alla quale radunare una serie di adesioni in grado di avallare la sua candidatura, o comunque di sostenere un listone – o diverse liste – che faccia capo alla sua persona. Si tratta, ça va sans dire, di un elemento se non di rottura, senza dubbio di novità rispetto al passato, in cui il confronto politico veniva costruito ed architettato in base a personalismi, ad antipatie e rancori nutriti nei confronti di questo o quel candidato, per non parlare poi della composizione delle liste, costellate da cortigiani, yesman e fedelissimi del capo (o dei capi). Una prima inversione di tendenza sembra quindi esser già stata operata, a prescindere dai contenuti – che andranno valutati nel merito, oltre che singolarmente – dell’agenda-Monti. Occorre poi domandarsi se la maggioranza del corpo elettorale italiano sia effettivamente portato a premiare un soggetto politico, sia esso listone, coalizione e chi più ne ha più ne metta, in cui a dominare non sia il populismo e l’invettiva personale, bensì la volontà di costruire qualcosa e non già di demolire quanto fatto in precedenza. Più esplicitamente: chi ci dice che l’italiano medio preferisca premiare Monti, conferendo alla sua persona il proprio voto, quando invece l’agone politico straripa di personaggi (in cerca d’autore) egocentrici, bizzarri, caricaturali ed inclini a far parlare di sé a tutti i costi? A questa considerazione si potrebbe giustamente obiettare che il popolo italiano è in larga parte moderato; e che quella che venne un tempo definita «maggioranza silenziosa» non è del tutto svanita, ma potrebbe riaffiorare in superficie da un momento all’altro, stravolgendo ogni previsione o proposito ipotizzato poco prima.
Tuttavia – ed è questo un elemento che occorre tenere da conto – i tempi sembrano maturi per operare un cambiamento sostanziale, oltre che necessario: una svolta radicale che conferisca nuovamente alla politica la sua naturale vocazione a prospettare soluzioni, sì per il contingente e l’immediato, ma – in via principale – per il futuro. Per coloro che saranno adulti tra vent’anni e che dovranno costruire il proprio orizzonte sulle macerie lasciate sulla scena da partiti scatenati e furibondi. Sotto questo versante, l’opzione Monti, al netto dei risultati piuttosto scarsi e non molto incisivi del governo tecnico, resta interessante, otre ad essere una valida carta da poter giocare per cercare di risanare definitivamente il nostro Paese.
Sullo sfondo, resta l’incertezza che alla sobrietà e alla «forza tranquilla» espressa dal Professore, il popolo italiano – quello che sarebbe in larga parte da considerare moderato – preferisca l’opzione dei partiti, o peggio, della partitocrazia. Quella che, come ben sappiamo, si esprime attraverso la formula del “cambiare tutto per non cambiare nulla”. Se l’offerta politica è sempre frutto della contemporaneità e della contingenze del momento, l’inatteso potrebbe proprio arrivare da quell’insieme di forze che, oltre ad essere sottostimate, vengono giudicate in partenza poco attrattive e non in grado di catalizzare il consenso elettorale.