di Damiano Palano

Come sempre avviene, la conclusione della legislatura induce gli osservatori a stilare un bilancio e individuare quali siano le forze politiche che escono sconfitte, o più provate, dalle tormentate vicende degli ultimi cinque anni (e soprattutto dal 2012). In questo caso, è abbastanza scontato rilevare come le maggiori perdite siano state accusate dalla vecchia coalizione di centro-destra, perché – anche a dispetto delle prospettive di ‘resurrezione’ politica di Silvio Berlusconi – nessuna delle forze che prese parte all’alleanza elettorale del 2008 sembra oggi in grado di giocare un ruolo di guida nella transizione al nuovo quadro politico. Ma non è forse nel sistema dei partiti che vanno ricercati i principali sconfitti degli ultimi cinque anni.

Alcune settimane fa Giorgio Napolitano, criticando i partiti per non aver provveduto a modificare la legge elettorale, ha parlato di «un’altra legislatura perduta». «È imperdonabilmente grave il fallimento di riformare la legge elettorale», ha affermato il Presidente della Repubblica, precisando anche che «nessuno potrà fare a meno di renderne conto agli elettori» e che «la politica rischia di pagare un prezzo pesante a questa sordità». Il richiamo di Napolitano non è privo di fondamento, non soltanto perché la mancata revisione del ‘Porcellum’ espone il paese al rischio dell’ingovernabilità, ma, soprattutto, perché proprio la «sordità» mostrata su questo punto dai partiti – e, in special modo, da quello più vicino al Presidente, il Partito Democratico – ha fatto fallire l’operazione condotta da Napolitano, non senza qualche forzatura, nel corso dell’ultimo anno.

L’intento del Presidente, nel momento in cui esercitava la propria pressione in vista della formazione di un governo tecnico, non consisteva infatti soltanto nel fronteggiare la situazione in cui l’Italia si trovava nelle giornate convulse del novembre 2011. Probabilmente, consisteva anche nel superamento del quadro politico della ‘Seconda Repubblica’. L’idea di ‘forzare’ la mano alle forze politiche, con la nomina di Mario Monti a senatore a vita, non scaturiva comunque solamente dall’obiettivo di porre fine alla stagione berlusconiana. Nasceva piuttosto dall’idea di dover imprimere una forte discontinuità al bipolarismo italiano, al fine di ricostituirlo su basi diverse. Così, l’esecutivo di Monti – nei propositi del Quirinale – doveva assumere effettivamente i contorni di un governo di ‘transizione’ tra la ‘Seconda’ e la ‘Terza Repubblica’: un governo che certo doveva far riguadagnare all’Italia almeno un po’ della perduta credibilità internazionale, ma che, soprattutto, doveva fare in modo che le forze politiche si dessero un nuovo assetto, riorganizzandosi dopo l’uscita di scena del magnate televisivo che aveva segnato il precedente ventennio.

Non è così affatto casuale che Napolitano, nell’ultimo anno, abbia dato tanto rilievo alla riforma delle legge elettorale, richiamando più volte il Parlamento ad intervenire su questo punto: proprio la modifica della ‘legge Calderoli’ avrebbe infatti consentito di cambiare il quadro della competizione partitica. Certo Napolitano pensava all’inconveniente di una legge elettorale che non assicura la governabilità. Ma, forse, aveva anche presente la necessità di ricostituire quel ‘centro’ politico così debole e così privo di autonomia nel corso dell’intera ‘Seconda Repubblica’. Perché, in fondo, Napolitano – da vecchio esponente del Pci, e non dimentico della lezione di Enrico Berlinguer – aveva ben presente un dato che i leader del Pd sembrano spesso dimenticare, ossia che l’elettorato italiano è tendenzialmente orientato – in misura non schiacciante, ma comunque significativa – verso il versante di centro-destra. Ciò non significa naturalmente che l’«italiano medio» sia un gretto reazionario, o l’evasore fiscale uso a parcheggiare in doppia fila su cui si esercita una certa satira. Più semplicemente, significa che l’elettore che si considera come ‘moderato’ e tendenzialmente ‘centrista’ conserva quella stessa avversione per la sinistra che aveva negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta: un’avversione dai forti toni emotivi, che ormai ha ben poco della connotazione ideologica del passato, ma che è paradossalmente sopravvissuta a tutti i mutamenti politici dell’ultimo trentennio. Invitando i partiti a modificare la legge Calderoli, Napolitano spingeva proprio a riconoscere questo dato: non certo per favorire il Pd, o per avvantaggiare una specifica parte politica, ma perché considerava la ricostituzione di un centro autonomo l’unica strada realistica per disincagliare il sistema italiano dalle secche di un bipolarismo ‘polarizzato’ e conflittuale, oltre che – implicitamente – per costruire una solida alleanza (magari post-elettorale) fra il Pd e le formazioni di centro. In sostanza, il Presidente puntava a restituire agli stessi partiti una rilevante autonomia di manovra dal bipolarismo, disinnescando la logica di contrapposizione frontale che ha caratterizzato la ‘Seconda Repubblica’. Anche perché la sua convinzione di fondo è, molto probabilmente, che solo la classe politica – una classe politica ovviamente responsabile e disposta a riconoscere i propri errori – possa fornire una soluzione alle divisioni, componendo attraverso il compromesso parlamentare fratture ancora profonde.

Tutte le scelte compiute da Napolitano nell’ultimo anno, al di là del contesto in cui sono maturate, sono andate proprio in questa direzione. Ma tutti gli sforzi del Presidente della Repubblica sono naufragati, non solo di fronte al ritorno in scena di Silvio Berlusconi, ma anche dinanzi all’atteggiamento adottato dal Pd rispetto alla riforma delle legge elettorale. Decidendo di non modificare la legge Calderoli, il Pd ha compiuto certo una scelta logica, perché tutti i sondaggi hanno predetto nel 2012 una sua vittoria schiacciante, o quantomeno sufficiente per accaparrarsi la maggioranza dei seggi alla Camera. Ciò nondimeno, il Pd ha effettuato in questo modo una scelta destinata a collocarlo in una posizione paradossale. Non soltanto perché in questo modo non è stato affatto disinnescato l’ordigno che rischia di riattivare la polarizzazione fra destra e sinistra, e dunque a spingere gli elettori incerti, indecisi, distratti a correre alle urne per opporsi a un’eventuale vittoria del Pd. Ma anche perché indebolisce sul nascere quel centro politico, nel cui rafforzamento confidava invece Napolitano come condizione per avviare la ‘Terza Repubblica’ (o forse solo per sbloccare la ‘Seconda’).

Naufragata la riforma elettorale, l’intera operazione avviata da Napolitano con la nomina di Monti a senatore a vita, e proseguita con la formazione del ‘governo dei professori’, si risolve ora in un sostanziale fallimento. Naturalmente non si può dire che l’intervento del Presidente Napolitano sia stato del tutto infruttuoso, perché, a ben vedere, neppure il più ostile critico sarebbe disposto a sostenere che l’esecutivo presieduto da Mario Monti non abbia restituito all’Italia la ‘credibilità’ e la ‘reputazione’ perdute negli ultimi anni del governo Berlusconi. E – benché non sia affatto scontato che ciò che pretende l’Ue dall’Italia sia davvero destinato a favorire l’Italia e la stessa Europa – era proprio in questa direzione che il Presidente Napolitano confidava potesse volgersi un governo ‘tecnico’, presieduto da un personaggio tanto autorevole sul piano internazionale quale Monti. Le misure adottate dal governo Monti hanno però solo posto un rimedio doloroso quanto temporaneo a problemi antichi, e tutt’altro che risolti. La credibilità riconquistata dall’Italia sulla scena europea è stata inoltre solo sufficiente a smuovere i paesi settentrionali dalla loro linea di inflessibilità, ma non ha certo modificato l’assetto di una Ue ben lontana dall’aver superato le difficoltà strutturali. E, inoltre, il quadro politico che uscirà dalle elezioni del febbraio 2013 – a prescindere da chi sarà il vincitore – risulterà tutt’altro che stabile, e tutt’altro che capace di assicurare quella ‘governabilità che molti considerano come l’ingrediente fondamentale per tenere a bada la turbolenza dei mercati finanziari e il mostro solo assopito dello spread.

Per tutti questi motivi, è davvero difficile non concordare con la lettura disincantata che dipinge quella che sta avviandosi alla conclusione come una “legislatura sprecata”. Ma è ancora più difficile non ammettere che i sette anni di presidenza di Napolitano si concludano con un sostanziale fallimento. Un fallimento reso ancora più evidente dal fatto che l’attuale Presidente ha giocato il suo ruolo di garante intervenendo nella dinamica interpartitica in modo ben più energico di quanto avesse fatto ogni suo predecessore, e forse addirittura in modo più radicale – seppur certo più composto – di quanto avessero fatto le “picconate” di Francesco Cossiga. E proprio per questo si può allora riconoscere che il principale sconfitto dell’esperienza del governo ‘tecnico’ non si trova a Montecitorio, a Palazzo Madama o a Palazzo Chigi, ma proprio al Quirinale.