di Fabio Polese

Per la sesta notte consecutiva Belfast è stata il teatro delle violenze lealiste. La protesta muove dalla decisione presa il 3 dicembre scorso dal Consiglio comunale con cui si è stabilito che solo per alcuni giorni all’anno l’Union Jack sarà esposta sul pennone del Municipio della città. Oggi è uno di quei giorni, la bandiera britannica è stata issata sul Belfast City Hall per celebrare il compleanno della Duchessa di Cambridge.

Gli scontri a suon di armi da fuoco, molotov, sassi e bottiglie contro la Police Service of Northern Ireland (Psni) e anche contro gli abitanti di alcuni quartieri repubblicani, hanno causato, dall’inizio delle proteste ad oggi, il ferimento di oltre 70 agenti e l’arresto di più di cento manifestanti.

La zona est di Belfast è diventata una barricata, e gli abitanti, preoccupati per il susseguirsi delle violenze, hanno chiesto alla Psni «tolleranza zero» verso chi delinque nelle manifestazioni. Secondo gli abitanti la polizia tratterebbe «diversamente le proteste di East Belfast dal resto della provincia», nel tentativo grottesco «di isolare la zona e di provocare violenza al fine di demonizzare le proteste pacifiche».

Secondo diverse fonti, comprese quelle della Psni, a coordinare le violenze di questi giorni, ci sono i capi dei paramilitari unionisti dell’Ulster Volunteer Force (Uvf). «I paramilitari hanno manipolato le proteste e rivolto le armi contro la polizia», ha dichiarato il presidente della Police Federation, Terry Spence.

La protesta, intanto, avanza su più fronti. Oltre gli scontri per le strade della città, i lealisti hanno minacciato di morte politici e giornalisti. Attraverso la posta sono stati inviati dei bossoli di proiettile a membri dello Sinn Féin e ad un reporter del National Union of Journalist (Nuj), dopo la pubblicazione di un servizio sugli scontri degli ultimi giorni. Secondo Barry McCall, il presidente del Nuj, «è un vergognoso tentativo di attaccare giornalisti che stanno lavorando in circostanze estreme». E ancora, sette colpi di arma da fuoco sono stati sparati contro l’abitazione della deputata del Social Democratic and Labour Party (Sdlp), Claire Hanna.

Nel corso della giornata di ieri, il primo ministro Peter Robinson, ha affermato che l’escalation di violenze danneggia notevolmente la reputazione dell’Irlanda del Nord in tutto il mondo. «Abbiamo lavorato a lungo – ha detto Robinson – per far dimenticare l’immagine dell’Irlanda del Nord come un posto dove c’erano violenza e instabilità». Il primo ministro ha espresso notevoli preoccupazioni anche per quello che gli scontri potrebbero significare sugli investimenti stranieri. «Abbiamo già degli investitori – ha continuato il premier – sia effettivi che potenziali, che ci stanno ponendo delle domande, e dobbiamo rassicurarli. È negativo – ha concluso Robinson – per la nostra immagine, è negativo per le opportunità di portare lavoro in Irlanda del Nord, e questo alla fine significa un male per la gente comune che non avrà l’opportunità di ricoprire quei lavori che potrebbero essere creati».

La realtà nell’Irlanda occupata è però ben diversa. E’ difficile dimenticarsi dei 3.500 morti causati dal conflitto che dura da oltre trent’anni e anche se l’8 marzo del 2007 si è istaurato a Belfast un nuovo governo di coalizione, composto da unionisti e repubblicani, la situazione non si è mai normalizzata. La stabilità di cui parla Robinson, è una pacificazione di facciata. Come di facciata è stato il ritiro delle truppe militari britanniche nelle sei contee dell’Irlanda del Nord, che non è mai avvenuto completamente.

Senza giustizia è difficile andare avanti. Lo sanno bene i repubblicani irlandesi che continuano a subire ogni anno le provocazioni durante le celebrazioni unioniste in ricordo della conquista britannica dell’Irlanda. E lo sanno bene tutti i familiari delle vittime della domenica di sangue di Derry, che ancora aspettano che i parà inglesi, esecutori del massacro, vadano in carcere.