di Danilo Breschi
Apro il fascicolo 492 della rivista gesuitica “La Civiltà Cattolica”, anno 1870, mese di settembre, fatidico per lo Stato pontificio e la storia d’Italia, e leggo un articolo intitolato “Una moderna educatrice della donna italiana”. Vi trovo frasi del seguente tenore: “In Italia, nonostante il gran progredire che si fa nella “vita nuova”, la femmina filosofessa, per grazia di Dio, continua ad essere uccello raro; quasi più raro del corvo bianco. E diciamo che è una grazia di Dio: perciocché dalla prova che alcune pochissime di loro hanno data, si può argomentare che guai alla pubblica sanità dei cervelli, se queste femmine abbondassero! Il delirio, fra noi, diventerebbe malattia nazionale”.
Ma il meglio ha da venire, e ve lo riporto per utile conoscenza: “Or, si voglia o no, il filosofare, il politicare, il moralizzare, insomma il dottoreggiare non è mestiere da donne. La madre natura non le ha fatte per questo […]. la donna è animale domestico e dalla natura designato a vivere vita casalinga… La signora Rosa si ricordi del proverbio: “Chi barba non ha e barba tocca, / Si merita uno schiaffo sulla bocca”…”.
Che per la Chiesa cattolica ottocentesca il ruolo della donna, ritenuta intellettualmente inetta, fosse del tutto subordinato, fino al limite dell’affermazione della sua naturale e irrimediabile inferiorità, anche sul piano civile e politico, lo dimostra un altro articolo, sempre della “Civiltà Cattolica”, risalente al 1854. La rivista dei Gesuiti ricordava infatti come per il magistero della Chiesa di Roma “all’uomo solo appartiene per universale dispensazione della Provvidenza il nome di cittadino e l’uso della cittadinanza”. Le donne sarebbero volubili, poco o niente raziocinanti, non atte a ruoli pubblici e al governo delle cose, nemmeno quelle domestiche, in fondo.
Leggo poi il testo che segue: “Una stampa fanatica e deviata attribuisce all’uomo che non accetterebbe la separazione questa spinta alla violenza. […] Possibile che in un sol colpo gli uomini siano impazziti? Non lo crediamo. Il nodo sta nel fatto che le donne sempre più spesso provocano, cadono nell’arroganza, si credono autosufficienti e finiscono con esasperare le tensioni. Bambini abbandonati a loro stessi, case sporche, piatti in tavola freddi e da fast food, vestiti sudici. Dunque se una famiglia finisce a ramengo e si arriva al delitto (forma di violenza da condannare e punire con fermezza) spesso le responsabilità sono condivise”.
Nel testo in questione si esamina poi la questione della violenza sessuale: “Quante volte vediamo ragazze e signore mature circolare per strada con vestiti provocanti e succinti? Quanti tradimenti si consumano sui luoghi di lavoro, nelle palestre e nei cinema, eccetera? Potrebbero farne a meno. Costoro provocano gli istinti peggiori e poi si arriva alla violenza o abuso sessuale (lo ribadiamo: roba da mascalzoni). Facciano un sano esame di coscienza: forse questo ce lo siamo cercate anche noi?”.
Per leggere questo testo non ho proseguito nello spoglio della raccolta dei numeri della “Civiltà Cattolica”, ma ho sfogliato i quotidiani del 27 dicembre scorso. Si tratta dell’ormai famoso (o famigerato?) volantino affisso sulle porte della chiesa di San Terenzo, a Lerici, dal parroco stesso, don Pietro Corsi. In stampatello, quale titolo, si leggeva: “Le donne e il femminicidio, facciano sana autocritica, quante volte provocano?”. Il testo è stato redatto da Bruno Volpe, editorialista e direttore del sito ultracattolico Pontifex.Roma.it. Il parroco si è “limitato” a riprenderlo e divulgarlo.
Intervistato il giorno dopo dal Gr1, don Corsi ha poi dato il peggio di sé replicando: “Se lei vede una donna nuda cosa prova? Quali sentimenti prova? Quali reazioni prova? non so se è un frocio anche lei, o meno… Non è violenza da parte della donna mostrarsi in quel modo lì?”.
Don Corsi era già noto alle cronache per l’uso del tazebao ed aver dedicato volantini satirici contro l’Islam e contro gli immigrati, regolarmente affissi alla porta della sua chiesa. Ecco un bell’esempio di “pornografia”, pari a quella che l’editorialista Volpe, e don Corsi, complice nella divulgazione tramite affissione, denunciano nello stesso volantino, chiedendone la proibizione. Come la pornografia, anche il testo di questo volantino fornisce giustificazioni alle violenze e ai soprusi ai danni delle donne. L’effetto è il medesimo. Complimenti! Se è da questi pulpiti che dobbiamo ascoltare ed accogliere prediche, Dio ce ne scampi e liberi! Lo nominerò invano? Non credo, meno certo di don Corsi. Ma quale Cristo hanno letto e insegnato? Questa la catechesi che propongono ai ragazzi?
Va detto che il vescovo di La Spezia, monsignor Palletti, ha espresso il suo sdegno: “nel volantino si leggono motivazioni inaccettabili che vanno contro il comune sentire della Chiesa”. In ogni caso, don Corsi non ha avvertito alcun bisogno di ritrattare, né provvedimenti particolari nei suoi confronti sono stati adottati dalle gerarchie superiori, fatto salvo un breve periodo di ferie per riprendersi dallo stress provocatogli dalle polemiche che ha innescato.
Quando sul sito dell’Istituto di Politica ho scritto circa il rischio che il maschilismo e la mentalità patriarcale presente nella cultura arabo-islamica potessero trovare una sponda nel sottofondo maschilista persistente nella mentalità collettiva occidentale, non pensavo certamente che questa sponda potesse essere offerta da ambienti del cattolicesimo nostrano. Non certo nell’anno 2012.
Al di là del fanatismo e delle simpatie integraliste del cattolicesimo di alcuni esponenti del clero e di certi personaggi che, più o meno a buon diritto, vi gravitano attorno, il problema di fondo è un altro. Il disagio di ambienti ecclesiastici nei confronti della donna è nei confronti della sua libertà tout court. Quella sessuale ne è solo un aspetto, ma nient’affatto secondario per le donne, data la storia di asservimento al maschio, che invece poteva fare quel che voleva della propria sessualità e di quella della donna, suo strumento, ora di godimento ora di procreazione.
Ancora nel 2013 pare necessario dover registrare nei dintorni e dentro la Chiesa cattolica apostolica romana una certa difficoltà nei confronti del principio di libertà, che riemerge ad intermittenza. Cento anni fa, sempre sulla “Civiltà Cattolica”, si poteva leggere che “quando il liberalismo sotto il mentito nome di libertà vuole introdursi o nell’ordine domestico, o nell’economico, o nel politico, la sua mira è sempre volta alla distruzione della religione stessa” e che “il liberalismo è causa di rovina per la vita presente non meno che per la futura”.
Il liberalismo, quello classico, che matura tra Kant e Tocqueville, non negava né nega affatto la morale, in molti casi nemmeno la religione, ma non accettava né accetta dogmi e fanatismi, e ha avuto e ha, talvolta, un proficuo dialogo con la tradizione cristiana, ma sempre al di fuori delle gerarchie e delle istituzioni di potere chiesastiche. Solo attingendo al liberalismo il cattolicesimo ha potuto mitigare molte sue posizioni. Non è forse un caso che tra i nuovi cattolici intransigenti, o sedicenti tali, vi siano non pochi ex comunisti, che spesso si dichiarano anche neoliberali, altrettanto ferventi. Da una chiesa all’altra, da un dogma all’altro, coerenti nell’apparente incoerenza. Tutto fuorché liberali.