di Danilo Breschi
Da Torino, il 2 ottobre 1860 Camillo Benso conte di Cavour scriveva al liberale toscano Vincenzo Salvagnoli, senatore, per rispondergli in merito al suggerimento di effettuare la subitanea proclamazione del Regno d’Italia e l’imposizione dello stato d’assedio. Cavour rispose in questi termini: “il vostro consiglio riuscirebbe pertanto ad attuare il concetto di Garibaldi, che mira appunto ad ottenere una gran dittatura rivoluzionaria da esercitarsi in nome del Re, senza controllo di stampa libera, di guarentigie individuali né parlamentari. Io reputo invece che non sarà l’ultimo titolo di gloria per l’Italia d’aver saputo costituirsi nazione senza sacrificare la libertà alla indipendenza, senza passare per le mani dittatoriali d’un Cromwell, ma svincolandosi dall’assolutismo monarchico senza cadere nel dispotismo rivoluzionario”.
È interessante notare l’attenzione cavouriana alla pubblica opinione liberale europea, il richiamo all’importanza della libera stampa e, soprattutto, alla centralità del Parlamento nei processi decisionali. Il liberalismo di Cavour si fondava su un metodo di lavoro che aveva fiducia nel ragionamento e nel confronto, soprattutto con gli avversari (in questo caso, Garibaldi e i repubblicani), ai quali si doveva almeno riconoscere il grande contributo alla causa comune della libertà e dell’indipendenza nazionale.
Scriveva ancora Cavour a Salvagnoli: “Ora, non vi ha altro modo di raggiungere questo scopo che di attingere nel concorso del Parlamento la sola forza morale capace di vincere le sette e di conservarci le simpatie dell’Europa liberale. Ritornare ai comitati di salute pubblica, o, ciò che torna lo stesso, alle dittature rivoluzionarie d’uno o di più, sarebbe uccidere la libertà legale che vogliamo inseparabile compagna della indipendenza della nazione”.
Il giudizio di Cavour sulla storia parlamentare inglese e sul ruolo di Cromwell rivela come il liberalismo ottocentesco italiano di metà Ottocento guardasse all’Inghilterra e ne traesse lezioni, ma senza cadere in un’acritica apologia e un’acquiescente imitazione. Va però detto che gli inglesi erano riusciti nel giro di una trentina d’anni dalla dittatura repubblicana cromwelliana a introdurre con il “Bill of Rights” i principi basilari di una monarchia costituzionale e, nei fatti, irrevocabilmente parlamentare. Fu la cosiddetta “Gloriosa Rivoluzione”, dopo la quale il re non recuperò più quel potere perduto a favore di un Parlamento bicamerale, rappresentante della volontà della nazione (pur ancora ristretta in termini censitari). Siamo nel 1689: la via alla progressiva parlamentarizzazione, e poi democratizzazione, del sistema politico inglese era stata comunque aperta.
Recentemente, Piero Angela ha dedicato una bella puntata di “SuperQuark” al Seicento inglese, ed in particolare alla guerra civile, la cosiddetta “Great Rebellion” (1642-1652), e alla proclamazione della repubblica da parte di Oliver Cromwell. “Uccidete il re! Cromwell e la nascita della democrazia”, questo il titolo della puntata andata in onda su RaiUno. È da notare come le premesse per l’accelerazione della storia inglese sulla strada del costituzionalismo e del suo primato in termini di istituzioni rappresentative e separazione dei poteri risiedano in uno dei periodi più bui della sua stessa storia. Cavour aveva visto giusto.
Con l’epopea risorgimentale si ebbero il riscatto e il balzo in avanti dell’Italia quale nazione politica. Anche dalla semplice lettura di una sola lettera si può cogliere tutta la grandezza di Cavour, dello statista che fu, abile nella tattica come nella strategia, e di quanto, grazie anche al suo decisivo contributo, il Risorgimento sia stato una pagina importante, ancora oggi più celebrata stancamente che ripensata e rivissuta collettivamente, da tutti noi italiani, come popolo e nazione. L’Unità politica e territoriale ha cancellato realtà statuali che, oggi più di ieri, causa il successo leghista degli ultimi vent’anni, c’è chi si ostina a presentare come virtuose e prospere. Lo Stato borbonico è descritto come vittima di un potere piemontese usurpatore e massacratore. La repressione del brigantaggio fu una pagina nera del neonato Regno d’Italia, alquanto discutibile, ma non è certo dalla parte del Regno di Napoli che stavano i diritti dell’uomo e del cittadino o le premesse del benessere economico e di una migliore condizione sociale delle classi subalterne.
Pochi giorni prima della puntata di “SuperQuark”, sempre in televisione è andato in onda “Il marchese del Grillo” (1981), vero capolavoro del cinema italiano e apoteosi delle capacità attoriali di Alberto Sordi. Qualcosa di più di una commedia, poco meno di un dramma, senz’altro un ritratto amaro della Roma papalina, tra andata e venuta di Napoleone in Italia, e una spiegazione sotto forma di farsa grottesca dell’origine di non poche delle tare storiche della nostra storia nazionale postunitaria, monarchica prima, repubblicana poi. Guardando il film, ci si meraviglia di quanto si fosse ancora arretrati nei paraggi e all’interno di Roma, pochi decenni prima della sua proclamazione a capitale di un nuovo Stato monarchico costituzionale (e parlamentare).
Consigliamo la visione del film ai simpatizzanti del revisionismo neoborbonico. Ammirino la tracotanza, il cinismo spietato e disperato del potere incarnato da Papa Pio VII e dalla deboscia aristocratica che lo attorniava. Tra questi il marchese del Grillo. Egli, potente e ricco, si può permettere persino di provocare una causa giudiziaria contro se stesso, certo che egli avrà la meglio essendo la parte che si ritiene lesa impersonata da un ebanista ebreo, ovvero un due volte emarginato. Corrotti il giudice e l’intera giuria mediante elargizione di denaro, il marchese esce dal processo non solo assolto ma rimborsato delle spese processuali in quanto parte lesa da un artigiano giudicato, e condannato, per inadempienza e non aver realizzato il lavoro “a regola d’arte”.
E risuona tremendamente ilare e pensosa la celebre battuta di Sordi rivolta ad un gruppo di popolani arrestati perché coinvolti con lui in una rissa, scoppiata dopo essersi divertito per qualche ora nel far finta di “ingaglioffirsi”: “Ah… me dispiace, ma io so’ io… e voi non siete un cazzo!” (che è poi la citazione di un sonetto del Belli). Ieri come oggi, quel sapore amaro di oligarchia, prepotenza, sudditanza e servilismo resta nella bocca di chi assaggi quotidianamente la vita pubblica nostrana. Quell’annosa difficoltà (non solo italiana, va detto) di farsi cittadini e di rendere il potere un semplice “servo dei servi”.
Da noi i marchesi del Grillo, così come gli Azzeccagarbugli, abbondano sotto altre spoglie, ma la sostanza resta analoga. Quanta fatica dentro la burocrazia, la giustizia, nei rapporti tra cittadini e istituzioni per il riconoscimento e la tutela di diritti fondamentali, quanta impotenza dei primi nei confronti delle seconde, ogniqualvolta queste decidano nuove tassazioni, così diffuse, lievitanti e dilaganti in ogni ambito della vita quotidiana, da ricordare balzelli di medievale e papalina memoria.
Passi avanti sono stati fatti, non v’è dubbio, ma una certa mentalità prepotente ed arrogante, sicura della propria impunità, permane in chi è chiamato a guidare la collettività, così come restano ancora troppe tracce di sudditanza ed acquiescenza, se non di servilismo, nella cultura ancor poco civica e civile della cittadinanza italiana. Ricordiamoci e ricordiamo sempre a lorsignori che la politica è al servizio del cittadino, e non viceversa. E se oggi tocca a me, domani tocca a te sottostare. Dunque, cominciamo a contestare qualsivoglia rendita di potere politico; e a pretendere una quotidiana “uccisione del re”, metafora del ripudio di ogni forma di abuso e sopruso, affinché gli inglesi non continuino a considerarci come dei pivelli della democrazia parlamentare.
Commento (1)
A chi Cromwell e a chi Cavour. Due diverse vie al regime parlamentare – di Danilo Breschi | Nelle tue mani
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